La Lettura, 25 ottobre 2015
Le due facce di Michel Houellebecq. Nella prima metà dell’intervista parla di poesia (sulle lavatrici), di sogni inventati e di interludi nella seconda di politica, di democrazia diretta e dell’Europa che «non è una buona idea»
@font-face { font-family: “Times”; }@font-face { font-family: “Cambria Math”; }@font-face { font-family: “Cambria”; }p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal { margin: 0cm 0cm 0.0001pt; font-size: 18pt; font-family: Times; }.MsoChpDefault { font-size: 18pt; font-family: Times; }div.WordSection1 { page: WordSection1; } Michel Houellebecq accoglie «la Lettura» nel suo appartamento, in una delle torri anni Settanta del quartiere cinese. Una casa così poco parigina, così incongrua per uno scrittore di straordinario successo e quindi così houellebecqiana: al tramonto, la vista sui palazzoni moderni del XIII arrondissement è bellissima. Parleremo per un’ora e mezzo di poesia, mentre esce in Italia la raccolta Configurazioni dell’ultima riva (Bompiani), e anche di politica, di Marine Le Pen, di Francia e di Europa. Il romanziere francese vivente più celebre nel mondo è appena tornato a Parigi dalla Spagna, dalla casa che possiede nei dintorni di Alicante, «e forse ho fatto male», dice. La Francia lo annoia. Stappa una bottiglia di vino rosso spagnolo, ci offre del chorizo. Cominciamo.
Perché scrivere poesie, Michel Houellebecq? Che cosa la spinge, da tempo, a comporre versi?
«Non lo so esattamente, ma prendono poco tempo. Non c’è bisogno di ripetersi per forza che hanno un senso, perché si scrivono in fretta. Dunque direi che è un’attività spontanea».
La tendenza all’autocritica non si esercita, nel momento in cui si comincia a dubitare, i versi sono già scritti?
«C’è questo elemento, anche se non ho una tendenza enorme all’autocritica. Ma un po’ è vero. In un romanzo quando si rilegge quel che si è già scritto bisogna comunque trovarlo interessante, mentre una poesia se non va bene la si butta, non è grave».
Le succede di cestinare molte delle poesie che scrive?
«Sì, ne butto abbastanza. Alcune le tengo ma non le pubblico, perché non stanno bene insieme alle altre».
Dunque questa raccolta di un centinaio di poesie corrisponde a una selezione delle migliori, ma anche di quelle che si accordano meglio tra loro?
«Bisogna che ci sia una certa coerenza, ci sono delle poesie che mi piacciono molto e se gliele facessi leggere vedrebbe che non sono affatto adatte al resto. Eppure sono abbastanza bravo a mettere insieme delle cose che non hanno grande rapporto le une con le altre... Estensione del dominio della lotta (il primo romanzo di Houellebecq, uscito nel 1994, ndr ) è piuttosto sconclusionato per esempio, passo da una cosa all’altra... Sarebbe abbastanza nella mia natura di essere incoerente. Comunque, perché pubblicare poesie? Forse perché sono celebre...».
La domanda iniziale non era perché pubblicarle, riguarda il fatto che lei è famoso come romanziere, ma ha sempre sentito il bisogno di scrivere poesie.
«Sì. Ho l’impressione che la poesia si autogiustifichi. Non c’è la dimensione del lavoro presente nel romanzo».
È più istintiva?
«Sì».
Dunque è più piacevole scrivere poesie che un romanzo?
«È un processo molto più legato all’inconscio, e spesso più piacevole. Penso che la maggior parte dei miei versi nascano da una sensazione di sorpresa e di incongruità rispetto al mondo, qualcosa del genere».
E quando prova questa sensazione di incongruità si mette subito a scrivere, o dopo cerca di ricordarsi i versi che le sono venuti in mente?
«No, lo faccio subito: se non lo si fa subito è tutto perduto. Non è molto lontano dalla trascrizione dei sogni».
Le succede spesso di trascrivere i sogni?
«Sì, mi è capitato, ne ho anche pubblicati inserendoli nei romanzi, di tanto in tanto. Ma in realtà li ho inventati... Non so, la trascrizione dei sogni non riesce mai molto bene. Ci provo meno di un tempo perché mi sono accorto che il risultato è quasi sempre scadente, anche se il quasi è importante».
Questa raccolta di poesie, alcune di molto tempo fa e altre recenti, riesce a dare un’immagine del Michel Houellebecq di oggi? Lei è cambiato?
«No, mi riconosco. Sto preparando un volume con la mia opera integrale dal 1991 al 2000, e riconosco quel che scrivevo, la personalità è sempre la stessa. Ci sono delle cose che oggi mi infastidiscono nel modo in cui mi sono espresso, ma riconosco bene la persona che ha scritto quelle cose. Sono sempre io, non si cambia granché. Forse ci si calma un po’, ma non si cambia».
Anche nello stile dei suoi romanzi lei è più controllato, ha più struttura.
«Sono meno isterico. Particelle elementari è molto isterico, ma i sentimenti li riconosco bene».
Quanto alla forma delle sue poesie, lei usa molto gli ottonari e in misura minore gli alessandrini, ma in qualche caso passa alla prosa. Che differenze ci sono?
«La rima presenta il grosso vantaggio che non c’è bisogno di sapere che cosa si scriverà dopo per continuare. Funziona in modo un po’ automatico. Ho l’impressione che in prosa si debba essere ispirati un po’ di più, le cose si svolgono seguendo un pensiero, mentre in rima anche se ci si ferma la sonorità pensa al tuo posto».
Nella poesia «HTM» lei parla dell’inizio e della fine di un amore. Possiamo dire che il tema più forte di questa raccolta è l’amore?
«È uno dei più riusciti, sì. Di questa raccolta. Ma recentemente in Francia ho fatto una specie di best of delle mie poesie, uscito per Gallimard... Delle poesie delle quali non si parla molto, a giusto titolo probabilmente, ma sono stato colpito da un enorme blocco di poesie in ottonari. Ho scritto una serie di poesie bizzarre che non si basano su un’emozione forte, ma giusto su una sensazione di bizzarria».
L’incongruità di cui parlava prima.
«Sì. C’è tutta una parte della poesia, si ritrova nelle canzoni in effetti, che è soprattutto la poesia d’amore. E c’è un’altra natura della poesia che invece non è affatto adattabile in musica, ma che è perfetta per decorare dei monumenti: puoi incidere i versi sulla pietra e danno dei buoni risultati. In Configurazioni dell’ultima riva c’è n’è qualcuno... La poesia è comunque aristocratica, puoi scrivere un romanzo appassionante sulla vita di un tipo che deve eliminare un concorrente in seno alla stessa azienda, questo genere di cose che interessano tutti. In poesia no, neanche la pornografia è facile in poesia. Verlaine ha scritto dei versi porno non male, ma spesso è costernante. Quel che invece funziona è il rapporto dell’uomo con il cosmo, con la donna considerata come cosmo. Il che è abbastanza valorizzante per la donna. C’è la poesia epica poi, che oggi è sparita, la Chanson de Roland non è poi un granché ma la Canzone della crociata albigese è eccellente. Non siamo per niente nello stesso registro del romanzo».
Ma allo stesso tempo nelle sue poesie e nei suoi romanzi ci sono dei temi che ricorrono. Il suo universo si riconosce anche nelle poesie: l’amore, il sesso, la disperazione...
«E le lavatrici, i supermercati...».
E i contatori elettrici...
«Ma questo va bene, la poesia può attaccarsi benissimo a dei luoghi contemporanei».
Come il terminal dell’aeroporto Charles de Gaulle.
«Sì: è un luogo veramente poetico, il terminal dell’aeroporto».
Perché?
«La situazione è poetica perché tutto è organizzato, ma in modo poco umano. Siamo per forza a disagio. È una cosa che sta in piedi, ma non siamo sicuri di sapere come, di comprenderne il meccanismo, e questo crea una sensazione di sfasamento rispetto al mondo, che è poetica».
In una delle sue poesie c’è questo verso, «Vivremo, mia amata, senza alcuna ironia». Perché non ama l’ironia? Che cosa significa amare senza ironia?
«È una liberazione vivere senza ironia, senza humor. Ironia e humor sono un modo di prendere le cose come se non fossero gravi. È bello invece di tanto in tanto rendersi conto che tutto è grave. Vivere senza prendere le distanze».
Pensa che nella nostra epoca l’ironia, il distacco, il doppio senso, siano abusati?
«Nella mia giovinezza soprattutto, adesso no. Ma allo stesso tempo siamo troppo seri su cose che non lo meriterebbero».
Per esempio?
«L’instaurazione della democrazia nel mondo, cose così. La democrazia merita di essere trattata con un po’ di ironia».
Mentre l’amore no.
«L’amore no. L’ironia è letale in amore. Nelle Particelle elementari c’è un lungo passaggio in cui il personaggio di Walcott spiega che lo humour è completamente idiota. Non serve a niente. La poesia non sopporta l’ironia e neanche lo humour. È un genere esigente ma riconfortante, rinvigorente».
Eppure anche in questa raccolta c’è forse qualche momento di humour, per esempio quando parla della vecchia «cougar», una donna-pantera stanca, e c’è un po’ di misoginia.
«È vero. Ma dura quattro versi. “Ti credi bella con la tua gonna in skai/ e fai la cattiva come in una pubblicità Kookaï” non è veramente una poesia, ma l’ho tenuta perché aveva un certo charme. Non avrei continuato».
Nella poesia che comincia con «povera ragazza» lei riprende l’idea di «Estensione del dominio della lotta» secondo la quale l’amore non è che per i belli, non c’è speranza per una «povera ragazza» poco attraente. Lo pensa ancora?
«Ma è evidente, non negherò certo l’evidenza. Non ne sono responsabile».
Nel suo libro ci sono dei momenti tristi come questo, ma anche altri nei quali l’amore è fatto di speranza, e questo contrasto è forse uno dei motivi della bellezza dei suoi versi. È cosciente di questo, dell’oscillazione continua tra tristezza, angoscia e poi recupero della speranza?
«Sì, è un atteggiamento ciclotimico. Ma sono versi che possono essere descritti come un istante di percezione. È per questo che le poesie devono essere scritte piuttosto velocemente, perché l’istante di percezione svanisce in fretta. Ci vogliono penna e taccuino a portata di mano. È così, di tanto in tanto hai degli istanti di percezione che ti sembrano avere una portata generale».
Dopo averli fissati su carta, fa delle correzioni o restano più o meno nello stesso stato?
«Le poesie le correggo veramente poco, e la correzione è elementare, consiste di solito nel cancellare un passaggio intero, ma non nel cambiare le parole».
Dunque resta fedele alla percezione originaria.
«Sì. Ma è sicuro che non si deve avere molto altro da fare, bisogna essere senza preoccupazioni».
Le succede di avere dei momenti così, senza preoccupazioni, nei quali riesce a fare astrazione dal mondo esteriore e restare con lei stesso, in pace?
«Sì, non è neanche tanto l’essere soli con se stessi, il punto è essere in presenza del mondo. Del mondo presente. Senza essere in una logica di progetto personale. Semplicemente vedere il mondo. Per esempio mi è successo con una poesia che si chiama Mezzogiorno (pubblicata nella raccolta Il senso della lotta del 1996, ndr) e comincia in rue Surcouf, a Parigi. Tempo di pioggia, in un caffé una ragazza americana scrive una lettera d’amore. Ero lì e si vedeva dalla sua espressione che era una lettera d’amore, e dunque ero capace di percepire. Finisce così: “Ho vissuto un breve interludio/ Nel caffé ad un tratto deserto”. Sono degli interludi, dei momenti nei quali la vita si ferma. Il fatto è che un certo ozio è necessario alla poesia».
Una volta lei ha detto questa frase: «Il mondo non è più degno della poesia». È questo ciò che voleva dire?
«Sì, perché non c’è più il tempo libero, o meglio il tempo libero inattivo, il tempo libero nel vero senso del termine. Quando uno è impegnato in un progetto personale, non ha tempo libero».
Le succede di non essere impegnato in qualcosa?
«Sì, certamente».
Ed è in quei momenti che si sente più felice?
«No. Non posso dire di essere né felice né infelice in quei momenti, solo una specie di être percevant pur, una pura entità che percepisce».
Che cosa legge in versi?
«Sono molto Ottocento, mi piace un po’ tutto di quel secolo, dai primi romantici ai decadenti passando per Baudelaire».
Lei sembra essere influenzato anche da Mallarmé.
«Sì, dev’essere così. Penso che sulle influenze i lettori spesso abbiano ragione più degli autori. Un autore non è poi così cosciente, sono cose digerite e non ci si pensa più. Forse si copia senza rendersene conto. Si può copiare, non è proibito. Si può essere molto influenzati, ma è difficile parlarne».
Alcuni versi di questa raccolta sono stati messi in musica da Jean-Louis Aubert, cantante della grande band francese degli anni Settanta-Ottanta, i Téléphone. Pensa che la canzone sia il modo attraverso il quale la poesia può avere ancora un seguito?
«Sì, anche se il testo poetico non è necessario, è una cosa in più. Ci sono delle ottime canzoni nelle quali il testo non ha una forma poetica particolare, ma quando ce l’ha si aggiunge qualcosa».
Ha in mente esempi dove c’è questo «di più» poetico?
«Jim Morrison sta al limite tra canzone e poesia. E anche Lou Reed talvolta. Quanto a Bob Dylan, non sono i testi quello che preferisco in lui, quanto il modo incredibile di cantare».
Dopo una pausa, la conversazione si sposta sulla politica, la crisi della democrazia rappresentativa, l’Europa. Houellebecq propone consultazioni popolari e il passaggio alla democrazia diretta, «ma vedo che il mio grande progetto stenta a venire applicato», dice, stavolta autoironico. «Mi innervosisce questo dibattito sul liberalismo economico sì o no, in cui la questione destra o sinistra si riassume in “lo Stato deve spendere di più o di meno”. In realtà penso che lo Stato non sia abbastanza liberale in certi ambiti e troppo in altri. I francesi non sono a favore o contro lo Stato, ma hanno opinioni abbastanza precise su questioni concrete. Non lo sappiamo perché non glielo domandiamo».
Dunque lei suggerisce una sorta di democrazia diretta.
«Sì. Io per esempio sono a favore del mantenimento delle linee locali delle ferrovie dello Stato, ma magari la maggioranza pensa che sia una sciocchezza. Poi consulterei i cittadini su altri argomenti, la sanità, la scuola...».
Ma potrebbe davvero funzionare? L’obiezione classica alla democrazia diretta è che andava bene nell’Atene dell’antichità o nella Svizzera di oggi, non in realtà più vaste come la Francia.
«Quel che è sicuro è che non potrebbe funzionare per l’Europa. Troppo grande. La Francia è un caso particolare di Paese ben strutturato, senza regioni indipendentiste... Credo che al limite in Francia la democrazia diretta potrebbe funzionare».
L’Europa quindi per lei non esiste.
«Sì, io mi sento francese. Nel mio progetto la smettiamo con l’Europa. Non è una buona idea».
Il dibattito politico attuale va in questa direzione. Molti intellettuali francesi sostengono un ritorno al sovranismo.
«Sì, sovranismo è un’espressione ripresa dal Québec, va bene, ma io preferisco parlare di indipendentismo, è più chiaro. Indipendentismo della Francia rispetto all’Europa, che è l’aspetto principale. Poi c’è l’aspetto dell’indipendentismo rispetto alla Nato, altrettanto importante, ma di cui si parla meno. Non vedo ragioni per cui la Francia debba appartenere alla Nato».
Anche in una situazione internazionale così turbolenta? E i raid francesi in Siria?
«No no, io sono per un neutralismo».
La Francia bombarda l’Isis perché spera di colpire i terroristi che vogliono commettere attentati in Europa.
«Non è una ragione valida. Non siamo autorizzati a intervenire in Siria per questa eventualità».
La sua è una visione isolazionista.
«Sì, ma a me sembra una buona strategia».
Voterà alle presidenziali del 2017?
«No, probabilmente, del resto nessuna forza politica segue le mie idee sulla democrazia diretta».
Marine Le Pen non prende forse in conto la democrazia diretta, ma anche lei parla di indipendenza della Francia e di uscita dall’Europa.
«Questo è vero, fa bene, brava. Ma non voterò, aspetto che un uomo politico venga a chiedermi dei consigli».
Non ha la sensazione che il dibattito politico in questo momento sia occupato dagli intellettuali, come lei? Non vi state sostituendo ai politici che sembrano bloccati, privi di idee?
«Quel che succede è che alcuni intellettuali, almeno una parte di loro, hanno smesso di essere di sinistra, e la sinistra è indignata: “È scandaloso, fate il gioco dell’estrema destra, tornate alla ragione. Voi siete intellettuali e quindi dovete restare di sinistra”. Le idee non vengono discusse, se anche uno ha dei progetti non vengono ascoltati, arriva l’etichetta di “nuovo reazionario” e il discorso è chiuso».
Poi c’è l’accusa di lepenismo oggettivo, di fare il gioco del Front National. Non ne ha paura?
«Non me ne importa nulla. Se devono essere eletti lo saranno».
Il Front National sta facendo campagna anche nelle banlieue, si rivolge ai musulmani che avevano votato in massa per Hollande, ma ne sono rimasti delusi soprattutto per misure come le nozze gay, contrarie ai valori tradizionali. Pensa che il Fn potrebbe prendere anche i voti dei musulmani?
«Certamente. Ma allo stesso tempo non è facile. Marine Le Pen è un po’ come un giocoliere che cerca di aggiungere sempre più palle. Ha aggiunto quella della sinistra, se cerca di aggiungere anche quella dei musulmani avrà sempre più palle da controllare e sarà sempre più difficile, con il rischio che crolli tutto».
Per il 2017 crede a un ritorno in auge di Hollande?
«Sì».
Cioè gli elettori di centrodestra voteranno ancora per lui pur di sbarrare la strada a Marine Le Pen?
«Sì, penso che lo scenario più probabile sia che Sarkozy vincerà le primarie del centrodestra davanti a Juppé, che il centrista Bayrou si presenterà, a quel punto al secondo turno andranno Hollande e Le Pen, e Hollande vincerà. Dopo, la situazione diventerà molto difficile: un Paese sempre più a destra con un presidente di sinistra. Ma questo è il gioco democratico, ed è per questo che propongo la democrazia diretta, perché questo gioco democratico non funziona più. Le regole erano fatte per un’alternanza tra centrosinistra e centrodestra, come negli Usa, ma ora c’è un terzo partito, il Front National».
Pensa che la sua visione di una Francia indipendente, autonoma, isolata sia condivisa dai suoi connazionali?
«Quanto a una politica estera indipendente sicuramente sì, c’è una forte nostalgia di de Gaulle. Sul piano economico è diverso perché assistiamo a una intensa propaganda degli economisti che dicono che andremmo alla catastrofe, che tutte le banche fallirebbero immediatamente, dunque le persone hanno paura».
Crede che non sia vero?
«Non ne ho idea. Ho molti dubbi su qualsiasi previsione economica. Ma in ogni caso questo riesce a spaventare la gente, che ha paura di uscire dal sistema. Ma è un governo attraverso la paura».