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 2015  ottobre 25 Domenica calendario

Suburra, tra fiction e realtà. Parla Pier Francesco Favino: «Sollima propone un quadro nel quale riconoscerti. Esci dal cinema e ti dici: “Ahò, ma io in questa realtà ci abito”. Se invece preferiamo i calchi esatti e pretendiamo di leggere nel mio personaggio o in quello di Amendola nomi e cognomi siamo fuori strada. Meglio vedersi un documentario. Questo è cinema. È un’altra cosa»

L’erede: «Ho deciso di fare l’attore». Il padre: «Solo un coglione può fare una scelta del genere». Il figlio, ancora: «Da qualcuno devo aver preso». A quasi tre decenni di distanza, Pierfrancesco Favino non ha dimenticato niente: «Un po’ per pungolarmi e un po’ per sincera paura del futuro, mio padre fu inizialmente ostile. Era un signore di un’altra epoca e se ne è andato 13 anni fa. Non ha visto tutti i miei film, ma abbiamo fatto in tempo a parlare da uomini, che è molto più importante. L’ho ascoltato mentre mi parlava delle proprie debolezze, gli ho raccontato le mie, ci siamo capiti». L’attore che recitò per Spike Lee e sarà presto Niccolò Polo nella serie prodotta da Netflix, ha fatto spesso cose giuste e viaggi avventurosi, ma di «qualche discussione accesa – dice – ho nostalgia».
Quando c’è l’occasione, non si tira indietro: «Con Stefano Sollima, il regista di Suburra, abbiamo animato litigate pazzesche. Baruffe dietro le quali c’erano amore per il mestiere e ambizione di migliorarsi. La possibilità di non essere d’accordo e dire all’altro o farsi dire: “Non capisci un cazzo” è fondamentale, rara ed è un segno di vitalità».
A 46 anni, tra un invito all’amico barista: «Non hai ancora visto Suburra? Sei impazzito?» e una scuola di teatro da dirigere a Firenze: «Apriremo il 9 novembre. È un progetto magnifico, con l’aiuto di alcuni dei migliori insegnanti del mondo formeremo 14 ragazzi senza far pagare loro un solo euro», Favino continua a esplorare.
Mecenate, produttore, interprete e forse, domani, anche regista: «Mi è accaduto di farlo in teatro, ma non è detto che mi ripeta al cinema. La cinepresa è un bell’oggetto, magari ne compro una, ma temo che per diventare come Sollima la passione non basti».
Nell’ultimo film firmato dall’autore di Acab, Romanzo Criminale e Gomorra, Favino è un deputato incline ai vizi e al mantenimento del proprio piccolo potere. Un ingranaggio del sistema, un utile idiota, un ex camerata passato dalla celtica al doppiopetto senza apparenti crisi di coscienza: «Dire da dove viene e dove è stato, lo mette all’interno di una categoria già storicizzata e gli toglie umanità».
E confonde?
«Rinchiudere il mio personaggio in una gabbia è esattamente come parlare di Mafia Capitale per definire un universo indistinto, allontanarne l’ombra, metterlo in un angolo e far finta che non esista. Il film non nasce per essere collocato in una scatola. Non ha etichette perché le rifiuta. E dentro Suburra, tra ex fascisti, ex comunisti, mafiosi e prelati, ci sono proprio tutti».
Un po’ come nella realtà.
«C’era un periodo in cui non potevi neanche pensare di fare affari con l’altra parte politica e invece come abbiamo visto, il guadagno ha potuto più delle ideologie. Non si può pensare che il mafioso calzi ancora la coppola in testa, così come non si può non pensare che la lente di ingrandimento su Roma riduca l’attenzione su altri loschi traffici. Altrove, mentre si discute dei mali di Roma e soltanto di quelli, stanno facendo festa».
I mali di Roma esistono.
«Sono andato ospite al Tg1. Prima del nostro spazio passavano le notizie: il Papa chiede scusa, l’Aniene straripa, scoperto giro di mazzette nella sanità. Sembrava l’avessero fatto apposta. Delle due l’una: o siamo stati molto furbi noi, oppure questo è il mondo in cui viviamo».
In 11 giorni di programmazione Suburra ha incassato quasi 3 milioni.
«Propone un quadro nel quale riconoscerti. Esci dal cinema e ti dici: “Ahò, ma io in questa realtà ci abito”. Credo che Suburra non somigli a nessun altro film. C’è la rivendicazione di una libertà creativa nei confronti della cronaca che dovremmo tenerci stretta. Se invece preferiamo i calchi esatti e pretendiamo di leggere nel mio personaggio o in quello di Amendola nomi e cognomi siamo fuori strada. Meglio vedersi un documentario. Questo è cinema. È un’altra cosa».
Che cos’è?
«È una bella versione di un’arte popolare che non esiste più. Nel raccontare, Sollima non ha un intento narcisista e non smania per il politicamente corretto. Non ti dice “quanto sono bravo, quanto sono intelligente e quanto sono vicino a quelli più sfortunati di me”».
E questo le piace?
«Molto. E sa perché?».
Ce lo dica.
«Perché lo spettatore ha finalmente un posto e una funzione. Può vederlo, farsi una propria opinione e scoprire che il film richiede un suo punto di vista. Puoi amarlo o detestarlo, ma Suburra non ti lascia indifferente. Non propina una tesi. Non cala dall’alto una verità. E fa discutere, il compito che dovrebbe prefiggersi qualsiasi opera».
C’è chi lo loda e chi lo critica, diceva.
«La stessa cosa era successa con Acab, il suo film precedente. Un film politico, uno dei pochissimi film politici che siano stati fatti negli ultimi anni».
Come definirebbe oggi un film politico?
«Un film che ti chiede di prendere una posizione, di definire il tuo posto nel mondo, di ragionare su quello che hai visto. Un film che non dà una visione precostituita, ma con simboli ed evocazioni ti invita a formarti la tua».
Che impressione le ha fatto pisciare su Roma?
«È un gesto neroniano compiuto da un personaggio semi-incosciente che si fa scudo di un’impunità da piccolo ras senza esercito. Malgradi, il politico che interpreto, è solo uno che ha imparato a nuotare in un ruscello agitato. Ma non è il fiume, come pure a un certo punto si illude di essere. Non piscia sull’asciutto, ma in una pioggia così fitta da diluire persino le intenzioni».
In Acab e in Suburra lei interpreta due ruoli sgradevoli.
«Ho provato a essere credibile. Come personaggio non posso stare con un piede fuori e l’altro dentro. Se non facessi così e mi sforzassi di dire che non sono di destra, non vado con le prostitute, non picchio i manifestanti e non piscio dalla finestra di un albergo, il pubblico che penserebbe?».
Cosa penserebbe?
«Direbbe “e a me, che me ne frega?’. Il mio è un mestiere soggetto al gusto e io lo faccio sperimentando, con un margine di errore dell’80 per cento. Se mi limitassi al compitino o all’esercizio di stile, sa che palle?».
Cosa insegnerà agli allievi della sua scuola fiorentina?
«A 18 anni, l’età dei nostri futuri allievi, volevo studiare teatro a Londra ma non avevo soldi. In Accademia c’erano insegnanti straordinari, ma sentivo che qualcosa non andava. Pareva che per diventare un attore fossi costretto a imitare qualcuno che non ero io. E dire che nelle imitazioni ci so fare. So’ una scimmia: tu mi dici imita quello e io eseguo. Però se mi chiedi: conosci te stesso per tirare fuori quel che sei recitando, io so che serve tempo. Tanto tempo. Questa impostazione all’Accademia non sembrava avere cittadinanza mentre altrove rappresentava il punto di partenza. Abbiamo un bacino di talento enorme, ma siamo rimasti indietro sul piano della formazione. Ora la filosofia di un approccio diverso al teatro ha una sede, a Firenze».
La scuola si chiamerà l’Oltrarno del Teatro Nazionale della Toscana. È contento?
«Sono orgoglioso. Due anni fa il direttore del Teatro della Pergola, Mario Giorgetti, mi chiese se mi interessava fare formazione. Gli dissi sì dopo qualche titubanza perché sapevo che me l’avrebbe fatta fare nella maniera che desideravo. Ho potuto metter insieme una squadra di insegnanti che ho strappato a importantissime scuole europee e americane. Figure che danno lezioni in accademie dai costi proibitivi. Da noi sarà tutto gratuito. Abbiamo ricevuto 640 domande d’iscrizione: essendo soldi pubblici vogliamo dimostrare che si possono usare bene».
Il suo obiettivo da attore?
«Lavoro per farmi capire da quando ho 19 anni. Frequento ancora corsi e seminari, perché sento di non riuscire a farlo come vorrei. Il mio mestiere è tutto lì: riuscire a scuotere chi mi guarda, tendere un filo tra me e chi mi osserva, pensare alla sua vita e non alla mia. Ci sono cose della mia vita che sarebbero noiosissime da raccontare semplicemente perché non sono narrative. Come a volte suonano onanistici anche i grandi dolori, i dubbi e le malattie mortali. Per raccontare stasi e disagio in forma di spettacolo devi essere Antonioni. Se non hai il suo talento, un problema c’è».
Dagli imitatori di Antonioni il cinema italiano è stato funestato.
«Non sono uno storico del cinema e ho una visione probabilmente becera, ma la mia sensazione è che nel ’68 non avessimo padri cinematografici da uccidere. Per far fuori De Sica, Rossellini, Germi o Visconti, c’era bisogno di una generazione di un altro tipo. Noi avevamo padri che erano come fratelli, maestri che era meglio non eliminare, ma conservare in vita cercando di rubare loro i segreti».
Un dramma generazionale.
«Noi siamo la generazione che si è vestita con i maglioni dei fratelli maggiori, che ha usato le borse di Tolfa e a cui a 18 anni – l’età in cui sogni di cambiare il mondo – è stata tappata la bocca con Mani Pulite. Ci hanno detto: “Guardate che fa tutto schifo”. E noi ci abbiamo creduto e abbiamo iniziato a scusarci e a chiedere permesso. Almeno, se il dato può consolarci, non abbiamo ereditato ideologie».
Chi ha letto il film con le lenti dell’ideologia non ha apprezzato Suburra.
«Mi era già successo interpretando Romanzo di una strage. Ci sono temi intoccabili perché appartengono a un preciso universo di riferimento che appena si sente chiamato in causa, reagisce. Diffido delle letture a senso unico, anche di quelle dei cinefili. C’è chi vuole fare del cinema un’operazione elitaria, quando il cinema elitario non è mai stato. Ma se a capire veramente un film è solo chi può armare un parallelo con Ozu, o è sbagliato il film o, come credo, è sbagliato il principio. Il cinema costa e si fa anche per incassare. Un biglietto costa 7 euro. Per convincere qualcuno ad andare in sala devi dargli la possibilità di credere a quel che sta vedendo. Un dono che Sollima possiede».
È una poetica talmente trasversale da affascinare anche il mondo di mezzo. Alla presentazione a Ostia di Suburra, lei e Amendola siete stati fotografati con un esponente del clan Spada.
«Non potevo sapere chi fosse quel ragazzo e se non avessi posato per lo scatto in mezzo a 300 persone sarei passato per uno snob che se la tira. Io sono quello sono, se mi chiedi una foto per strada mi fermo e faccio anche il sorriso. La prossima volta al fan chiederò la fedina penale. Mi è andata anche bene, sa cosa mi ha raccontato Sergio Brio?».
Il centralone difensivo della Juventus trapattoniana?
«Proprio lui: “Sei stato fortunato, a me in allenamento con la scusa di un autografo hanno fatto firmare una cambiale”. Più della foto mi dispiace la reazione della stampa. L’esponente di quel clan è stato dipinto come un genio capace di beffare i noti attori con una trovata. Mi pare eccessivo».
Delle sue beffe adolescenziali cosa ricorda?
«La mia moto, una Yamaha Rd 350, detta amorevolmente “la bara volante” e i miei amici di Monteverde. Stavamo insieme da mattina a sera. Nei condomini romani di via Piccolomini, le porte restavano sempre aperte. Giocavamo su un pratone e come in un film degli anni 50, le madri ci chiamavano dalle finestre per annunciarci il pranzo. Mi ricordo come fosse ieri l’8 febbraio 1976».
Cosa accadde l’8 febbraio ’76?
«Andava in onda l’ultima puntata del Sandokan di Sergio Sollima, il padre di Stefano. Tra i 27 milioni di italiani rapiti da Kabir Bedi c’ero anch’io. Il black-out arrivò a mezz’ora dall’inizio. Tutti al buio. Io e le mie sorelle ci fiondammo nel palazzo a fianco per chiedere ospitalità. Perdere Sandokan sarebbe stato un trauma».
Ricorda come uno choc anche il suo set d’esordio, il Fenoglio televisivo di Alberto Negrin?
«Avevo 19 anni, ero senza agente, non ci capivo niente e ad aumentare la confusione contribuì l’eccessiva aspettativa. Ci fu un momento in cui sembrava che potessi fare il protagonista. Negrin non era convinto del mio aspetto e mi fece tingere i capelli. Dal giorno alla notte mi ritrovai con la testa color rosso carota. Alla fine mi assegnarono un altro ruolo e ringrazio ancora il cielo. Non ero pronto».
Con la fama è cambiato lo sguardo nei suoi confronti?
«Tanto. Ho perso alcuni amici e ho sofferto. Poi ho capito che è fatale».
Quanto fu importante Muccino nel suo percorso?
«Ne L’ultimo bacio avevo un ruolo molto marginale e sul set guardavo turbato gli altri attori: io sembravo Calimero e loro tutti amicissimi, fichissimi e bellissimi. Esserci fu comunque importantissimo. Con Baciami ancora, il sequel, misurai quanto le cose fossero cambiate».
Le cose erano cambiate anche per Muccino. I peana degli esordi erano mutati in eccezioni.
«Tra un film e l’altro i critici passarono dall’ammirato saluto al nuovo Scola a trattare Baciami ancora come una schifezza. Non ci fu equilibrio e allora, o i critici lo avevano sopravvalutato o si erano sopravvalutati loro. Gabriele, un talento enorme che avrebbe dovuto essere tutelato nel suo primo momento di fragilità, fu invece aggredito dal godimento per il passo falso, dal preconcetto e dal tutti contro uno. Anche i Taviani e Lino Miccichè si accapigliavano, ma lo facevano in nome di un bene superiore. Il livore antimucciniano aveva altre radici. Lui, ferito, decise di emigrare e mi pare abbia ampiamente dimostrato il suo valore. Forse non è stato tutto vano. Certi eventi formano la resistenza, la forza e il carattere di una persona».
Eventi che hanno formato il suo?
«Ammiro Sergio Castellitto, attore grandissimo a cui avrei voluto somigliare. Lavorammo insieme sul set di Padre Pio. Nella scena avrebbe dovuto schiaffeggiarmi e in effetti mi riempì di ceffoni violentissimi che a un certo punto, con la faccia viola, mi costrinsero a fermarmi. “Io sono per gli schiaffi veri” aveva detto prima di iniziare. Era stato di parola».