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 2015  ottobre 26 Lunedì calendario

Viaggio nello stabilimento di Melfi, che riversa ogni mese 18 milioni di euro sul territorio della Basilicata

MELFI. Camici bianchi, tute chiare e pavimenti lucidi.
Sembra di camminare per i corridoi di un ospedale. «Così lo sporco si individua prima, e si elimina», scherza ma non troppo il direttore Nicola Intrevado mentre ci accompagna in giro per lo stabilimento Fca di Melfi, il secondo più grande al mondo per il sodalizio italo-americano. Dove magari non si salveranno vite ma c’è un reparto maternità che si dà da fare visto che ogni giorno nascono 1.500 auto, tra “vecchie” Punto e gemelle diverse Fiat 500X e Jeep Renegade, per una capacità potenziale di 400 mila vetture l’anno.
Non la solita cattedrale nel deserto all’italiana, ma un polo di eccellenza tecnologica nel cuore della Lucania, al confine tra Basilicata e Puglia. Una realtà che dà lavoro a ottomila persone (1.800 le nuove assunzioni) più quattromila di fornitori dell’indotto, che qui significa aziende praticamente dirimpettaie, con stipendi medi di 1.500 euro. Circa 18 milioni di euro riversati ogni mese su un territorio, il 98% dei lavoratori viene infatti da zone limitrofe, dove l’occupazione è sempre più una chimera. Tutto sommato, l’investimento di 6,6 miliardi di vecchie lire (di cui la metà statali) che nel ’93 ha permesso l’apertura della fabbrica, per questa gente è stato manna dal cielo o quasi.
Più di sei milioni di auto sono uscite da questi cancelli. La stragrande maggioranza sono Punto: quasi centomila solo quest’anno nonostante la prossima pensione. E continueranno ad essere prodotte, seppur in minor numero, anche nel 2016.
Oggi la missione è un’altra. Ovvero fare macchine destinate a tutto il mondo, non più solo all’Italia o a qualche piazza del vecchio continente. Ed è ben sintetizzata dalle gigantografie sui muri del “Pilotino”, ovvero il centro di training permanente per le nuove leve: le foto degli operai si stagliano sullo sfondo di New York e della Grande Muraglia.
Un cambio di passo da un anno a questa parte. Ovvero da quando è cominciata la produzione della Renegade, subito con una grande responsabilità perché si tratta della prima Jeep mai costruita al di fuori degli Stati Uniti. E qualcuno, al di là dell’oceano, ha storto il naso. «La forza di una Jeep è la tradizione e l’autenticità, non importa dove è prodotta», il mantra dei manager è già una risposta.
Oltre al concetto, però, c’è la sostanza. Quella fatta di standard qualitativi che il sito è stato messo in grado di offrire, grazie all’investimento di un miliardo di euro ma anche alla sua tradizione: visti i trascorsi nel segmento B, quale posto migliore per produrre l’entry level del mondo Jeep? «Le proiezioni fino al 2018 ci indicano che i Suv aumenteranno fino a 18 milioni di unità nel mondo», spiega il direttore marketing e prodotto Emea (Europa, Medioriente e Africa) Dante Zilli, «e tra questi il comparto più in crescita è quello delle taglie piccole, con 3,5 milioni».
Qui a Melfi si lavora sette giorni su sette, venti turni a settimana: due di giorno e uno di notte, due soli di domenica e il resto del tempo è occupato dalla manutenzione. Gli operai sono coinvolti con iniziative e suggerimenti, nonché un livello altissimo di responsabilizzazione: sono meticolosi nell’eseguire il loro compito, vigilano sulle procedure e in caso di anomalie possono fermare la produzione tramite lo schermo tattile che ciascuno ha nella propria postazione. Non è un caso che l’ultimo incidente, peraltro non grave, risalga all’aprile 2011.
L’intero ingranaggio, così come la logistica, dev’essere perfetto: se si blocca qualcosa si blocca tutto. Basti pensare che qui ogni mattina entrano 200 camion pieni di componentistica ed escono 100 bisarche piene di auto alla sera. In più c’è una linea ferroviaria diretta che collega la fabbrica col porto di Civitavecchia: due treni al giorno che riempiono la pancia di enormi navi cargo dirette verso l’America. Halifax, Boston, San Diego: una Regenade è “fatta” di 2.500 pezzi, ci vuole un giorno per costruirla e un mese per farla arrivare oltreoceano, non si sgarra. Il 60% dei modelli che escono da Melfi è destinato a quei mercati, e solo il restante rimane in ambito Europa, Africa e Medio Oriente. Dunque ogni auto è “export ready”, esce cioè dalle linee di montaggio già con le specifiche adatte ai paesi di destinazione. Che per il momento sono 47 ( a cui si aggiungono i 4 sudamericani serviti dallo stabilimento brasiliano di Pernambuco), ma nella strategia di internazionalizzazione del marchio arriveranno presto a un centinaio.