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 2015  ottobre 25 Domenica calendario

A Jaipur (India) dove stanno mandando in malora la bellezza

Trecentosessantacinque finestre ha il palazzo: una per ogni giorno dell’anno. Costruito duecentosedici anni fa da un mahraja, l’Hawa Mahal: avresti potuto affacciarti a un davanzale diverso ogni mattina per settantontomilasettecentoquaranta volte e constatare il degrado lento dello splendore, la città rosa bordarsi di nero, lasciarlo colare come trucco sul volto, infine sfatto di Jaipur. La razza umana uccide per moltiplicazione: in trent’anni la popolazione è raddoppiata. Di elefanti, invece, ne sono nati due. Stanno remoti, ai bordi, per non sentire il ronzio di questi insetti motorizzati, lo schianto delle serrande dei loro negozi di paccottiglie, il vocìo feroce che morde le parole e le rende vane. Il passato è una malinconia senza oggetto: chi oggi potrebbe raccontare la città com’era? La ricostruiscono sui set fasulli dei Marigold Hotel, depliant animati per attori invecchiati, chi con dignità (Judi Dench) chi con pena (Richard Gere). E noi qui, in questo presente affamato che divora se stesso mentre si guarda vivere in diretta. Le dame comprano pashmine fucsia a riprova del viaggio, i cavalieri considerano la possibilità del polo sull’elefante (sport in cui una squadra di transessuali thailandesi ha battuto una di ex all blacks neozelandesi), dopo essersi allenati sul tetto di pullmini Volkswagen usando canne di bambù e palline da golf. Prima o poi dovrà pur aprirsi il cielo e una voce tuonare: «Avete finitoooo?».
Nell’attesa si offrono sontuosi banchetti in palazzi tempestati di preziose pietre e spuntini affumicati da smog nelle baracche sul marciapiede. Agli uni e agli altri incontro fotografi disarmati. Più dei giornalisti mi raccontano la vita, sarà perché la guardano, invece di immaginarla. Uno, indigeno, sgranocchia semi per strada e ricorda che un giorno lo ingaggiò il New Yorker per fare da assistente in loco al grande Richard Avedon. Doveva essere un numero speciale sulle religioni nel mondo. Avedon arrivò, scese in un grande albergo, lo ricevette nella hall e gli mostrò immagini che aveva ritagliato. Disse: «Voglio questo», indicando un mistico in meditazione. «Facile», disse il fotografo indiano. «Ma deve essere giovane e bellissmo».
«Si può fare».
«Con i capelli lunghi fino a terra».
«Si può tentare».
«E un ratto vivo sulla spalla».
Il fotografo indiano si dimise, perchè: «Voi occidentali l’India la volete vedere soltanto marcia». Io gli indico quel che ci circonda e lui abbassa la testa: «In effetti, lo sta diventando».
Un altro, americano, mi siede accanto, al riparo dal caos. Il giardino è curato, camerieri in livrea ci servono il tè, seguiranno i cocktail. Racconta di essere arrivato da Kabul: «Ho accettato questo incarico sui palazzi di Jaipur per prendermi una settimana di tregua: da tre anni sono soltanto razzi nei posti sbagliati, barbudos tra le rocce, donne invisibili, illusioni e paure». Posso capire e andrebbe tutto bene: è la vita che ti sei scelto, ognuno ha la propria droga. Poi alle sue spalle appare un imprevedibile terzetto: una donna, un infante, una bambinaia. Il piccolo avrà non più di tre mesi. E un conto è portarlo nel giardino di una reggia a Jaipur, un altro farlo nascere tra i razzi nel posto sbagliato, cioè Kabul. Gli domando come gli sia venuta questa esigenza e risponde candido: «Mia moglie ha pensato che ne avessi bisogno».
Lo guardo sempre più incuriosito:»E questo ti ha convinto?».
Sorride, posa la tazza, mi fissa negli occhi. So che sta per arrivare: un’altra riga per il manuale di filosofia spicciola eppur fondamentale. Autori vari, raccolti nel mondo, nessuno di loro pensatore professionista. Dispensatori di verità non ufficiali ma affidabili con elegante distacco, un diamante lanciato prima che le porte del treno si chiudano, prendilo al volo.
Dice: «Le persone che ti amano sanno molto meglio di te quel che è bene per te».
Me la segno. Il bambino, la madre, Kabul, Jaipur. Tu capisci molto poco della tua vita, di quel che può renderla decente o meravigliosa. Sei nella foresta, che ne sai di quanto è grande o fitta, dove stanno i ruscelli o la via d’uscita? Provi con i “forestologi”, esperti a pagamento che ti dicono la loro alle spalle, sbucando a tradimento dal silenzio. Poi però alla fine della settimana, per capire la propria vita, vanno da altri “forestologi”. Prova con chi ti ama, a patto che lo trovi davvero. Affidati, dovunque ti conduca. Non avrai mai una guida migliore e, mal che vada, deraglierete insieme.
Stiamo mandando in malora la bellezza.
«Avete finitooo?».
Non ancora. Irrompe la luce oltre i muri rosati e viene a stendersi sul prato di quest’oasi. Un giorno riconquisteremo il deserto, se sapremo trovare la strada per uscire da questa piccola foresta, con un bambino in braccio e una guerra alle spalle. Convinceteci a farlo, voi che sapete come.