Corriere della Sera, 25 ottobre 2015
Perché l’Auditel non basta più a rilevare gli ascolti
Lo stop temporaneo alla pubblicazione dei dati Auditel è stato salutato da taluni come l’inizio della fine della «dittatura degli ascolti». Posizioni che sembrano non comprendere la natura del mercato televisivo, che è per definizione un «mercato a due versanti»: le reti producono insieme programmi destinati agli spettatori ma anche ascolti da «vendere» agli inserzionisti pubblicitari. E questi ascolti devono essere quantificati in modo condiviso e trasparente.
Ma allora perché, al di là dell’incidente specifico, i broadcaster si sono mossi per sviluppare forme di rilevazione e metriche alternative? Le ragioni principali sono due. Da un lato il mercato è profondamente cambiato a seguito della digitalizzazione, della diffusione massiva del web, della «convergenza dei media». La televisione generalista non è morta e non morirà – come sostiene invece il patron di Netflix Reed Hastings – ma certamente non rappresenta più l’intera tv. Nel 2015, oltre il 40% dei consumi televisivi in daytime non passa più per le reti generaliste, ma viene intercettato da una miriade di medie e piccole reti. E, fuori dal classico teleschermo, crescono i consumi attraverso pc e tablet e fioriscono nuovi modelli economici (seppur ancora minoritari).
Per tutto questo servono metriche innovative: è normale che broadcaster come Sky (attraverso «Smart Panel», anche nella modalità «Real Time» per l’ascolto in diretta) o Mediaset (attraverso «Sele», un panel di 55mila spettatori) provino a sapere di più sui loro consumi.
La seconda ragione sta però nel fatto che, in questi anni, Auditel ha accumulato un notevole ritardo in termini tecnologici, e di trasparenza. In queste settimane, l’omologo britannico «Barb» ha inaugurato un sistema che censisce l’ascolto on-line.
È un sistema condiviso da tutti gli attori, da BBC a Sky: tecnologia al servizio della trasparenza e del benessere del mercato.