La Stampa, 24 ottobre 2015
La Sanità costava 67 miliardi nel 2000 e 109 nel 2012
La sanità ha subito oltre 35 miliardi di tagli in 5 anni», ripetono da tempo come un mantra le regioni. Che dietro i 2 miliardi depennati ora dal fondo sanitario nazionale vedono nuovi aumenti d’imposta.
Il piano di rientro
Perché la legge di stabilità, oramai è chiaro, consente ancora alle amministrazioni in piano di rientro (Piemonte, Lazio, Abruzzo, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia) di ritoccare all’insù le addizionali Irpef ed Irap, oltre che i ticket. Arma alla quale potranno ricorrere anche le altre regioni con i bilanci sanitari non ancora tinti di rosso. Non ancora perché come precisato ieri dal dimissionario Presidente della Conferenza delle regioni, Sergio Chiamparino, «se il Fondo sanitario dovesse rivelarsi insufficiente alcune regioni che ora non lo sono rischierebbero di finire in piano di rientro e, a quel punto, l’incremento delle imposte sarebbe inevitabile».
I dati del ministero
Analisi che sembra però fare a pugni con una tabella fuoriuscita dai cassetti del ministero della Salute che fotografa l’andamento della spesa sanitaria corrente dal 2000 al 2012. Pur con l’effetto tagli il costo di Asl e ospedali è passato da 66,9 a 108,9 miliardi, che equivale ad un aumento del 63%. Tutto questo mentre la popolazione aumentava di soli 2 milioni. Altro che razionamento della sanità. E a salire in picchiata non sono le spese per ricoveri ospedalieri o farmaci innovativi, ma i beni e servizi, che hanno registrato un vero boom, pari a un più 130% in dodici anni. Cosa si celi dietro questa esplosione ce lo ha raccontato pochi giorni fa il rapporto sugli ospedali di Agenas, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali, che nei bilanci in rosso ha svelato nascondersi spesso costi superiori anche del 50% tra un nosocomio e l’altro per cose come mense, pulizie o riscaldamento. Senza parlare del personale, sempre in sovrannumero di amministrativi negli ospedali in deficit. Come dire che se domani si applicassero i veri costi standard i conti potrebbe tornare a quadrare nonostante i tagli.
Il confronto europeo
Non la vede così l’economista sanitario Federico Spandonaro, presidente del Crea sanità dell’Università Tor Vergata di Roma. «Quell’incremento del 63% in dodici anni significa il 4% l’anno. Calcolando che oltre la metà è di inflazione non credo che quel che resta sia molto per finanziare le nuove tecnologie e l’aumento della popolazione». «Comunque – aggiunge – la spesa sanitaria è da anni in calo rispetto al Pil e perdiamo il 2-3% l’anno a confronto degli altri Paesi europei». E Spandonaro non è nemmeno convinto che basti eliminare gli sprechi, «che pure ci sono», per far sì che il sistema regga. «A meno che non si voglia continuare a razionare l’accesso alle prestazioni ritardando l’ingresso di farmaci e tecnologie innovative o allungando le liste d’attesa come già avviene».
Il nodo delle tasse
Certo è che l’alternativa al taglio degli sprechi si chiama ancora una volta tasse, anche perché, con la metà degli italiani che non li pagano, i ticket sono già al massimo. Ma anche con le addizionali regionali Irpef non si scherza. Lazio e Piemonte potrebbero ritoccare all’insù solo le aliquote per i redditi tra 15 e 35 mila euro, perché per il resto, svela uno studio della Uil politiche territoriali, sono già all’aliquota massima del 3,3%. Ma anche le altre regioni hanno spinto sull’acceleratore, con aumenti medi del 7,5% tra il 2013 e il 2014. Discorso non molto diverso per le addizionali Irap sulle imprese che, Piemonte escluso, già in tutte le regioni in piano di rientro viaggiano su aliquote record del 4,5-5%.
Allora sarà anche la spesa sanitaria più bassa d’Europa, ma la via obbligata sembra quella di falciare gli sprechi.