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 2015  ottobre 24 Sabato calendario

Il regalo da 200 milioni di Jack Dorsey ai propri dipendenti conferma che Twitter è in crisi

I padroni della Rete tornano allo spirito delle origini, libertario e idealista? Questa è la lettura più benevola del gesto annunciato ieri da Jack Dorsey. Il 38enne fondatore e amministratore delegato di Twitter regala un terzo delle sue azioni ai dipendenti. Un dono che vale 200 milioni di dollari. Dorsey lo ha spiegato così: «Voglio reinvestire direttamente nelle persone che lavorano con me. Preferisco possedere una quota di azionariato più piccola, in un’azienda più grande. E noi renderemo Twitter sempre più grande». Da quando quest’estate lui è tornato alla guida dell’azienda che aveva creato, Dorsey aveva anche deciso di lavorare senza stipendio, senza gratifica, senza stock option.
Il social media di San Francisco – celebre per i suoi “cinguettii” di 140 caratteri – sembra riscoprire la cultura che segnò la storia della Silicon Valley, dove abbondano gli imprenditori idealisti, portatori di utopia, convinti che la Rete sia uno strumento di libertà e di opportunità per tutti. Ma dietro il gesto generoso di Dorsey c’è anche un’altra spiegazione. Twitter perde colpi. Pochi giorni prima in effetti aveva annunciato il licenziamento di trecento dipendenti, cioè l’8% della sua forza lavoro. Dietro c’è una disaffezione del pubblico. Arrivato a 315 milioni di utenti, Twitter sembra avere raggiunto un tetto. Quasi altrettanto numerosi sono gli utilizzatori che hanno assaggiato questo social media e poi lo hanno abbandonato. Da tempo ormai la crescita langue a ritmi lentissimi. Molti indirizzi sono inattivi. In un solo trimestre, è sceso del 33% il tempo trascorso dall’utente medio a leggere o a mandare dei “tweet” (che si traduce appunto in cinguettìo). Un recente rapporto della banca Morgan Stanley ha consigliato di vendere le azioni, a conferma del pessimismo di molti investitori. Non tutti però: l’ex amministratore delegato di Microsoft Steve Ballmer di recente ha comprato il 4% del capitale di Twitter.
I guai economici dell’azienda sembrano in contraddizione con la visibilità che Twitter continua ad avere su un certo di eventi: rimane un social media favorito per i commenti a caldo su eventi di attualità: dalle tragedie come le stragi nei campus Usa, ai talkshow e dibattiti politici in tv, alle partite. Nel discorso politico continuano a imperversare i tweet, a destra come a sinistra. Donald Trump, che domina i sondaggi tra i repubblicani per la nomination presidenziale, lo usa costantemente (cioè lo fa tempestare di tweet dai suoi collaboratori) e ha messo insieme la ragguardevole folla di 4,4 milioni di follower (seguaci). A sinistra una prova del suo impatto politico si è avuto con #BlackLivesMatter: la campagna contro le violenze poliziesche, con lo slogan “le vite dei neri contano”, è nata come un hashtag di Twitter ed è diventata un vero movimento politico, con cui anche i candidati alla Casa Bianca devono confrontarsi. Per rafforzare la sua presa nell’immediatezza, Dorsey ha introdotto di recente una nuova opzione su Twitter: ciascuno può lanciarvi il proprio sondaggio. La domanda del sondaggio resta aperta per 24 ore, al termine delle quali si tirano le somme ed esce il risultato. (Per ora è previsto che si possa rispondere solo sì o no). Un’altra novità recente si chiama Moments e consente di dare maggiore visibilità, attraverso l’editing dell’azienda stessa, ai messaggi e immagini più bello o significativi. Qui è evidente il tentativo di rincorrere Facebook. Dove sono quindi le debolezze di Twitter? Un moto di disaffezione e di fuga è iniziato – come riconobbe il precedente chief executive Dick Costolo – da quando questo social media è stato invaso da un fiume di ostilità: aggressioni, messaggi di odio e diffamazione, spesso dal tenore razzista o sessista. Alcune blogger hanno denunciato il fatto che contro le donne il volume di aggressioni è un multiplo della media. L’immediatezza e la velocità dei 140 caratteri si prestano all’insulto, e Twitter non ha mai avuto filtri di privacy paragonabili a quelli di Facebook. Più di altri social media, anche per la brevità originale dei suoi messaggi, Twitter è diventato sinonimo di tutto ciò che si può criticare nella cultura dei social media: superficialità, banalità, brusìo effimero, distrazione costante della nostra attenzione. Dal mondo della cultura si sono levati appelli alla rivolta: da Umberto Eco a Jonathan Franzen. Nascono contro- movimenti di resistenza all’istupidimento, diventa uno status symbol prendere le distanze dalla massificazione e dall’appiattimento di queste forme di comunicazione. E tuttavia questo movimento di critica non ha provocato difficoltà analoghe a Facebook.
In effetti per Twitter c’è un altro fattore di debolezza, di natura molto diversa: riguarda la raccolta pubblicitaria. Facebook, e la sua controllata Instagram; Google e la sua controllata YouTube: sono questi gli avversari ben più potenti che catturano una fetta molto maggiore del mercato pubblicitario online. Twitter non riesce a presentarsi come un contenitore pubblicitario abbastanza attraente in confronto ad altri social media. Alla fine è sempre su quel fronte che si svolge la competizione decisiva: la guerra quotidiana per catturare la nostra attenzione e bombardarci di messaggi di marketing; oppure, rovesciando l’operazione, per vendere alle aziende tutte le notizie su di noi, saccheggiare la nostra privacy, analizzare i nostri gusti e le nostre spese.