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 2015  ottobre 24 Sabato calendario

Rapporti tra Fattori e Carducci (anche attraverso Argia Bongiovanni)

La ragazza del dipinto pare scuotere la testa bonaria. Lei si chiama Argia Bongiovanni, è la giovane cugina di Giovanni Fattori e si è fatta fare il ritratto dal parente pittore (con estenuanti sedute in posa) per un solo, antico, motivo: tranquillizzare il geloso fidanzato che si era dovuto allontanare da lei per rientrare a Bologna, donandogli il simulacro pittorico della sua presenza paziente. Lui si chiamava Valfredo Carducci: il fratello del futuro Premio Nobel.
È questa donna assennata e accampata con grazia nello spazio, dunque, il trait d’union più evidente che legò Fattori a Giosuè Carducci. Ma non è il solo. Perché se è vero che non ci sono molti documenti tangibili (lettere, testimonianze), a unire i due c’è un sentiero di tracce culturali, comune sentire, espressioni, colori. Sì, c’è la Maremma toscana. La «macchia», dagli accesi verdi e gialli che si infiammava nei tramonti presso Castiglioncello. Le boscaiole sudate e appese agli strumenti del mestiere. I buoi che si impuntavano a metà strada, come ragazzini ostinati, dotati di potere raziocinante, non solo fiaccati dalla canicola. Ma anche i buoi a riposo, clementi e pii nel seguire l’esempio dei padroni, addormentati dopo ore di fatica nei campi.
Lo sguardo. Ecco che cosa accomuna il pittore che rivoluzionò il linguaggio artistico dell’Ottocento italiano e il poeta che divenne un «faro» di ispirazione civile sia nel corso del Risorgimento sia nel periodo malandato della prima unificazione d’Italia. Fattori, poco alla volta, trasforma il gusto per la verità che aveva fatto scuola nella Francia di Barbizon (la rappresentazione realistica e fedele della società) in una «poesia di umili eroi» che però manca di quel senso di rivendicazione che si vedeva in Telemaco Signorini. E pure dei rimandi spirituali, ai confini con il simbolismo, come in Lega.
Qui c’è la semplicità delle cose grandi. Come nelle poesie carducciane: c’è una vicinanza autentica alle persone intente nel lavoro, uomini e donne ma anche buoi e vacche. C’è il «pio bove» e quel mite «sentimento di vigor e di pace» e quell’eroismo consumato sui campi di grano era in fondo il terreno sul quale stava nascendo la floridezza tosco-maremmana.
Anche economica: alcune famiglie aristocratiche come i Corsini (nella cui tenuta di Castiglioncello Fattori ha dipinto ritratti quali quello di Teresa Fabbrini, in mostra) stavano all’epoca riannodando le fila del progetto settecentesco di Leopoldo di Toscana, in una visione ben precisa della campagna, intesa come estensione rurale del benessere urbano – un po’ come la rivoluzione che, a suo tempo, fece del Palladio un grande architetto della borghesia agreste. Dai Ricasoli ai Niccolini, molte famiglie facevano fruttare gli investimenti finanziari in case coloniche bellissime, con il pavimento. Contratto mezzadrile e rapporti quasi di amicizia con i contadini completavano questo scenario che sapeva di salute, economia sana, tramonti rosati, giovanissime rampolle che suonano il pianoforte. Ma anche di sudore nel lavoro, di donne che intrecciavano cappelli di paglia o reste di cipolle; di bovari al pascolo e di pescatori vittoriosi sul sonno della prima luce fredda sul mare.
Così il pittore delle grandi battaglie (Fattori) e il poeta degli ideali civili (Carducci) in fondo, non fecero che trasfigurare l’epica nella storia. Il coraggio dei soldati nella mischia nelle tele maremmane di Fattori diventa allora il faticare insieme ai buoi. E nel Canto di marzo Carducci esorta: «Chinatevi al lavoro, o validi omeri;/ schiudetevi a gli amori, o cuori giovani; / impennatevi a i sogni, ali de l’anime; /irrompete a la guerra, o desii torbidi:/ ciò che fu torna e tornerà nei secoli».
Ma, in fondo, anche la stessa donna che, inconsapevolmente, unì il pittore e il poeta, la saggia cugina Argia, può essere vista come simbolo di «umile eroismo»: molte donne fidanzate con uomini gelosi che vivono in un’altra città dovrebbero essere insignite di medaglie al valor civile.