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 2015  ottobre 24 Sabato calendario

Entrare in una stanza chiusa e poi saperne uscire. È “Escape Room", il gioco del momento. Ha un grande successo per questa ragione: genera panico

Finora, tra Milano e Torino, sono entrate 44 mila persone: solo 40 sono riuscite a trovare la via d’uscita. Il gioco di società che avvince mezzo mondo, e ora anche mezza Italia, è una trappola, e la possibilità di uscirne è pari al 2 per cento. Nella stanza cieca ci si infila per propria volontà, con un unico scopo: riconquistare la libertà, che solo un’ora prima si è consegnata all’ingresso della prigione.
In Oriente, dove sono nati, si chiamano «takagism», in America «escape-room»: giochi di fuga, in cui una squadra, composta da un minimo di due a un massimo di 6 giocatori, deve riuscire a scappare entro un’ora, semplicemente usando il cervello. La porta blindata si aprirà solo al termine di una serie di quiz logici, che però non richiedono una cultura particolare, né la conoscenza della lingua inglese, né una spiccata capacità matematica. Hanno nomi come «Secret Rooms», «Enigma Room», «Get me out» o «X-Door» (portato a Milano da due ventiquattrenni che lo hanno provato a Valencia), dove la «x» è quella marcia in più che occorre per emergere. Ne nascono di continuo, sono aperti dalla mattina a notte fonda, permettono di vivere l’esperienza pagando da 10 a 60 euro, a seconda dell’ampiezza del gruppo.
Daniele Massano, torinese appassionato di giochi, ha creato il gioco di fuga «Intrappola.to» privilegiando un percorso che premia l’intuizione più che la preparazione. I veri cervelli non sono quelli che hanno letto più libri, interiorizzato teorie, risolto formule: per fuggire occorre piuttosto spirito di osservazione, organizzazione e capacità di ascoltare. «Abbiamo avuto una squadra di professori del Politecnico di Torino che credevano di uscire in pochi minuti e allo scadere dell’ora era in alto mare», spiega Massano, che parla di una esperienza «immersiva» e in grado di mettere a nudo le proprie capacità.
Sul blog del Corriere «Italians» la concorrente Lorenza Luparia scrive a Beppe Severgnini: «abbiamo provato il gioco dell’“escape room” in famiglia... Pazzesco come il gioco faccia subito emergere la diversa forma mentis dei partecipanti: i due figli maschi ci lasciavano senza parole con intuizioni semplici e risolutive quando le nostre ipotesi risultavano macchinose e dispersive. Non siamo riusciti ad uscire in tempo ma ci siamo piaciuti».
La stanza chiusa diventa un osservatorio per i «registi», che come un Grande Fratello, vedono senza essere visti, e guidano i concorrenti verso la soluzione. Nel gergo del gioco si chiamano «aguzzini» e in pochi minuti mettono a nudo le dinamiche tra i concorrenti. Le più tipiche? La dualità tra le coppie. «Spesso chi vede lungo è la donna, ma l’uomo tende a ridimensionarla, quasi insofferente per l’intuizione e ancora più nervoso quando, a scoppio ritardato si accorge che quella strada era giusta», dice l’aguzzino Andrea Triano. Nel box claustrofobico entrano gruppi di colleghi per eventi di team building, si festeggiano compleanni e qualche volta si bara: qualcuno che ha già fatto il percorso, torna una seconda volta fingendo di essere neofita e dispensando ai compagni di gioco strabilianti intuizioni. L’obiettivo è dimostrare di essere migliori degli altri, per quella che il sociologo dei processi culturali Mario Morcellini sintetizza come «l’incredibile alterigia degli uomini di oggi: tutti in fondo pensano che se la caveranno da soli». In realtà il percorso, se fatto senza inganni, può essere un ricostituente della percezione di sé e delle proprie capacità. «In tempi di opacità generale, mettersi alla prova è un esercizio interessante: risolvere un problema o anche solo aver tentato di farlo, rafforza le persone», spiega Morcellini. «Gli uomini non danno mai il meglio di sé nelle emergenze, sotto il peso dello stress siamo macchine difettose: il rischio simulato invece regala una mappatura delle proprie capacità».
Incredibilmente l’humus di cui si nutre l’esperienza non è tanto il divertimento (che comunque è assicurato, le date sono spesso sold out), ma la paura. Gli esseri umani osservati in una stanza costrittiva, rivelano qualcosa di importante che non sanno di loro. «Se non ci fosse il panico, questo gioco avrebbe meno successo: viviamo con una sottocutanea paura, e la capacità di cavarsela diventa la misura del nostro valore».
Non sorprende quindi che tra i frequentatori più assidui ci siano i non udenti: sono almeno 70 i gruppi che sono entrati nelle escape room italiane. «Il pericolo ha una colonna sonora acustica che a loro è esclusa».
Liana Daher, sociologa e studiosa di comportamenti collettivi, intravede nella possibilità di fare squadra l’elemento positivo dei giochi di fuga. «Un controcanto all’individualismo digitale, che va in direzione opposta al gioco non cooperativo ipotizzato nel dilemma del prigioniero». Come in una metafora delle difficoltà della vita, la collaborazione è la chiave di volta, unita alla capacità di guardarsi intorno e di afferrare al volo la combinazione fortunata. «Dato che il tasso di riuscita del gioco rimane molto basso avremmo potuto decidere di dare un premio significativo e ci abbiamo ragionato tantissimo – spiega Massano-. Ma con una “taglia” la gente non giocherebbe per vincere, passandosi le soluzioni. In questo modo chi ha conquistato le risposte se le tiene per sé, un po’ perché se le è sudate, un po’ per non svelare la trama di un film».