Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  ottobre 24 Sabato calendario

Il magistrato che fa politica non torni poi a fare il giudice

I l Consiglio superiore della magistratura ha fatto sette proposte sui rapporti tra giudici e politica al ministro della Giustizia, perché questi promuova un disegno di legge sulla materia. Sono proposte dirette ad allineare il trattamento dei magistrati che entrano nella politica locale a quello dei giudici impegnati a livello politico nazionale e a regolare, per gli uni e gli altri, i casi di prolungato impegno fuori dell’ordine giudiziario. Oggi, infatti, un magistrato può fare il presidente di una Regione o il sindaco esercitando contemporaneamente la funzione giurisdizionale, sia pure in altra circoscrizione, oppure può svolgere a lungo attività politica e al termine ritornare nei ranghi.
Si tratta di proposte giuste, ma timidissime e corporative. Partono da
una diagnosi parziale, quella di «gruppi politici,
in crisi di autorevolezza, [che] cercano magistrati noti al pubblico per le indagini svolte o incarichi di prestigio ricoperti
per candidarli ad
assemblee elettive e affidargli incarichi di governo».
Non tengono conto
che c’è anche l’opposto,
una politicizzazione endogena, costituita da giudici e procuratori che corrono verso la politica, con una esondazione pervasiva tale da far
scrivere che da uno Stato di diritto si ritorna a uno
Stato di giustizia.
Basti dire che i parlamentari–magistrati sono triplicati negli ultimi venti anni.

T re gli interrogativi che la proposta suscita. Poteva, in primo luogo, il Consiglio della magistratura fare esso stesso di più, lungo la linea delle sue due circolari del 2009 e del 2014, con la sua attività «paranormativa», per arginare un fenomeno che mina l’indipendenza dell’ordine giudiziario? Proprio ieri l’Associazione nazionale magistrati, nel suo congresso barese, ha ribadito la tesi del «governo autonomo della magistratura»: perché l’organo di governo non ha invitato o non invita i magistrati a garantire la propria distanza dalle carriere politiche amministrative?
Secondo: perché il Consiglio non si preoccupa anche delle cariche non elettive? L’imparzialità del giudice non è minata anche dalla nomina governativa a posizioni di vertice dell’amministrazione o di enti e autorità pubbliche?
Terzo interrogativo: basta dire che un magistrato che si dedica ad attività politiche o politico amministrative deve farlo fuori della circoscrizione in cui ha svolto la sua precedente funzione e deve mettersi fuori ruolo, salvo ritornare, poi, nei ranghi giudiziari? Non è comunque minata la sua immagine di persona indipendente e imparziale, per aver manifestato pubblicamente una appartenenza politica, per essere andato nelle piazze a nome di un partito, per aver goduto della fiducia di un governo, nazionale o locale? Quale assicurazione di indipendenza e di imparzialità potrà dare, dopo aver svolto l’attività politica per un partito, a chi dovrà essere sottoposto alle sue indagini o al suo giudizio?
Si dirà che la Costituzione dispone che tutti possono accedere alle cariche elettive e agli uffici pubblici e che hanno diritto di conservare il posto di lavoro. Ma la Corte costituzionale nel 2009 ha ben precisato che ai magistrati è riconosciuta una posizione particolare, alla quale corrispondono speciali doveri. E la Costituzione garantisce il «posto di lavoro» al termine dell’esperienza politica, non la stessa funzione.
Dunque, i magistrati che si impegnino in attività estranee, presentandosi alle elezioni, svolgendo attività politica, accettando cariche amministrative per nomina governativa, dovrebbero non solo essere collocati fuori ruolo, ma, al termine, passare nei ranghi dell’Avvocatura dello Stato, come anche il Consiglio della magistratura propone per un numero molto limitato di casi. Solo così si stabilisce quella distanza tra giustizia e politica che assicura al cittadino sottoposto a indagine o a giudizio di aver davanti una persona «al di sopra di ogni sospetto di parzialità».
Se il Consiglio superiore della magistratura, che dovrebbe essere il palladio della indipendenza e della imparzialità dell’ordine giudiziario, non si dà carico di questo compito, dovrebbero assumerselo governo e Parlamento, ai quali tocca ora fare il prossimo passo.