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 2015  ottobre 23 Venerdì calendario

La teoria dei neuroni specchio, ecco perché il cinema riesce a coinvolgerci nel suo mondo fittizio

Mentre l’attore solleva verso di sé la tazzina di caffè, il cineoperatore, inquadrandolo, gli si avvicina fino ad arrivargli di fronte. Una voce dice «Stop! Questa era buona», ma non è il regista. A parlare è un neuroscienziato. Sì, perché quello che si sta svolgendo è un esperimento. I ricercatori vogliono capire in che modo il cinema riesca a coinvolgerci nel suo mondo fittizio. Così hanno messo degli elettrodi sulla testa degli spettatori per controllare la loro attività cerebrale davanti a delle immagini filmate. Partendo da un’ipotesi: guardare il gesto di un attore stimola le stesse aree che si attivano quando si compie quell’azione in prima persona. È la teoria dei neuroni specchio: capiamo le azioni degli altri grazie ai nostri neuroni motori, che ci permettono di immedesimarci. Ora ad applicarla al cinema è Vittorio Gallese, docente di fisiologia all’Università di Parma e membro del team che ha scoperto i neuroni specchio nel 1992. Gallese, insieme a Michele Guerra, docente di Teoria del cinema all’Università di Parma, spiega i risultati del suo esperimento nel saggio Lo schermo empatico (Raffaello Cortina, pp. 250, euro 25), e stasera, al Festival della scienza di Genova, ne parlerà con il pubblico.
Come è nata l’idea?
«Qualche anno fa Michele Guerra mi contattò per i miei studi sui neuroni specchio, ossia sulla neuroscienza dell’empatia, suggerendo che sarebbe stato molto interessante applicarli al cinema. Il libro vuole rispondere a domande come: perché i film ci piacciono e ci coinvolgono? Che impatto hanno su di noi? Che cosa cambia se vediamo un film al cinema o su un tablet?».
La risposta è che esiste una continuità. Come se, davanti a un film, fossimo al tempo stesso spettatori e attori.
«La parola chiave è “simultaneità”: il modello classico della percezione distingueva nettamente tra le attività cognitive e il sistema motorio, visto come un mero esecutore di movimenti che si sarebbero attivati soltanto dopo la percezione (per esempio: vedo qualcuno correre) e la cognizione (capisco che può esserci un pericolo e decido di scappare anch’io). Oggi gli esperimenti ci mostrano invece che il sistema motorio è importante non solo “a valle” ma anche “a monte”: se vedo qualcuno che corre, sono i miei neuroni motori che, attivandosi, mi aiutano a capire ciò che vedo. C’è un rispecchiamento visuo-motorio. Non solo: anche vedendo un volto che esprime una certa emozione, in me si attiva parte di quegli stessi circuiti che sono attivi quando quell’emozione la vivo in prima persona. Il concerto di questi meccanismi guidati dai neuroni specchio, di fronte a un film che ci mostra azioni, movimenti, emozioni, genera un’immedesimazione che ci porta “dentro” il grande schermo».
Ci fa un esempio tra i film che avete testato?
«Pensiamo a un capolavoro come Notorious di Hitchcock. Ancora più della trama, ad avvincerci è il modo in cui Hitchcock suscita in noi processi istintivi, che precedono la riflessione, e sono attivati da primi piani, rapidi movimenti di macchina, zoom, tagli di montaggio e soluzioni sonore. Prendiamo la famosa scena delle chiavi. Alicia deve sottrarre al marito le chiavi della cantina. È nella stanza da letto, e il marito è in bagno. La scoprirà? Alicia guarda le chiavi appoggiate al tavolo, e la cinepresa si avvicina al tavolo, suggerendoci che sia Alicia stessa a muoversi – è una falsa soggettiva che ci fa percepire l’immanenza del suo corpo e ci fa identificare in lei. Ecco, ora il mazzo sembra a portata di mano. Poi però l’inquadratura si allarga e capiamo che Alicia era rimasta immobile: è il movimento di macchina che ci ha dato l’illusione di “camminare insieme a lei” verso il tavolo. Quando Hitchcock ci rivela che così non è, capiamo che la tensione non è ancora finita».
Perché le storie fittizie del cinema ci coinvolgono così tanto?
«Nella vita quotidiana spesso ci sono molti elementi distraenti. Invece al cinema siamo al buio e soprattutto immobili. Per quelle due ore mettiamo tutte le nostre risorse al servizio dell’immedesimazione. In un certo senso il cinema ci fa tornare bambini. Noi, rispetto agli altri animali nasciamo immaturi, e il nostro sviluppo avviene soprattutto al di fuori dell’utero, in un mondo sociale, dove apprendiamo tutto ciò che ci serve per vivere grazie alla percezione delle azioni ed emozioni intorno a noi. Prima di capire gli altri, e anzi proprio per capirli, li scimmiottiamo. Facciamo nostri i loro gesti, ripetiamo i loro suoni. La simulazione poi diventa immedesimazione e quindi empatia, ossia vero accesso al mondo degli altri. Il cinema ci riporta allo stadio di “osservatori silenziosi” e “mimi” proprio della nostra infanzia».
Ci sono tecniche cinematografiche più coinvolgenti di altre?
«Per scoprirlo abbiamo studiato le risposte cerebrali di un gruppo di spettatori ad una stessa scena (un attore che beve un caffè) ripresa in quattro modi diversi: da una cinepresa statica, muovendo la lente dello zoom, muovendo la cinepresa su una rotaia (o dolly) e usando la steadycam ossia fissando la cinepresa al corpo dell’operatore. Risultato: la riduzione della distanza tra spettatore e scena attiva di più i neuroni specchio, accrescendo l’immedesimazione. Soprattutto quando si usa la steadycam, perché è il sistema che simula di più la nostra naturale percezione in soggettiva. Lo zoom, invece, più “innaturale” per l’uomo, è la tecnica che attiva di meno i neuroni specchio».
Sono notissime alcune scene filmate con la steadycam in Shining: mostrano il piccolo Danny che con il triciclo percorre i corridoi dell’Overlook Hotel. Quali «trucchi» ha usato Kubrick per coinvolgerci e atterrirci?
«A un certo punto Danny entra con il triciclo nelle cucine dell’hotel. In una scena la steadycam lo segue da dietro, Danny svolta a destra e scompare dall’inquadratura. A questo punto forse un altro regista avrebbe tagliato lì la scena. Invece Kubrick fa camminare ancora l’operatore con la steadycam. Noi spettatori non vediamo più il bambino, ma la nostra prospettiva continua a muoversi in avanti: in qualche modo abbiamo la sensazione di camminare con una presenza invisibile, fantasmatica, che sta inseguendo il bambino. Avvertiamo questa inquietante presenza anche se vediamo solo un corridoio vuoto. È la steadycam a farci immedesimare in questa presenza».
Dal grande schermo del cinema stiamo passando a quelli più piccoli di smartphone e tablet. Come cambia la nostra percezione di un film?
«È vero che le nuove tecnologie digitali rimpiccioliscono le immagini in movimento, in compenso le rendono sempre più ubique. Poter vedere un video in ogni momento sullo smartphone rende ancora meno linguistica – e più visiva – la nostra esperienza del mondo. E non solo più visiva, ma anche più corporea e tattile: per la prima volta nella storia alcuni gesti – come aprire indice e pollice per zoomare – hanno effetti diretti sulle immagini. È una rivoluzione nella percezione che sarà affascinante studiare».