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 2015  ottobre 23 Venerdì calendario

«Io ero Pig Pen, il bambino sempre sporco, Charlie Brown era mio padre, Linus Van Pelt, invece, almeno per il nome, era un amico di mio padre dai tempi della seconda guerra mondiale. E Lucy era mia madre» Parla Craig Schulz, il figlio di Charles

Il signor Craig Schulz è un uomo fortunato. Terzo di cinque fratelli, suo padre lo disegnò quando era ancora ragazzino e milioni di persone gli si affezionarono. Era nientemeno che uno dei membri della Banda Peanuts. Oggi, a 64 anni, firma con il figlio Bryan (34) la sceneggiatura di Snoopy & Friends, il megafilm di animazione dall’opera del padre.
Ma di tutta la banda, lei, Craig, chi era? Non sarà stato proprio lei Charlie Brown? O era per caso Linus?
«Nessuno dei due» risponde. «Io ero Pig Pen, il bambino sempre sporco, quello che calamita tutta la polvere che c’è in giro. Ed era vero: mi piaceva trafficare nel garage con i pezzi meccanici e arrivavo a cena tutto sporco di olio e di grasso. E la cosa peggiorò quando ebbi abbastanza risparmi da comprarmi il primo scooter».
E Charlie Brown e Linus, chi erano? «Direi proprio che Charlie Brown era mio padre, ci aveva messo dentro tutti i suoi ricordi da bambino. Linus Van Pelt, invece, almeno per il nome, era un amico di mio padre dai tempi della seconda guerra mondiale. E Lucy era mia madre» (Charles M. Schulz dopo 21 anni di matrimonio e cinque figli, nel 1972 divorziò per risposarsi l’anno dopo).
«Devo dire che mi sento più vicino a Charlie Brown che a Linus. Linus, per me, è troppo filosofo, troppo intellettuale. Io sono piuttosto il tipo che cerca di cavarsela».
(E Craig-Pig Pen non dimentica che fu proprio Charlie Brown a farlo accettare, benché lurido, da Piperita Patty come suo partner per il saggio annuale, dove si dimostrò un gran ballerino).
Il signor Craig Schulz parla da Santa Rosa, cento chilometri a nord di San Francisco, dove la famiglia ha sempre vissuto. I Peanuts nacquero qui, in una comunità cresciuta negli anni Quaranta con le industrie belliche, tra i grandi vigneti delle valli di Napa e di Sonoma. Negli anni Cinquanta fu anche un rifugio per artisti e scrittori messi al bando da Hollywood durante l’ondata maccartista, mentre la vicina cittadina di Petaluma è detta la «capitale delle uova», per la presenza, fin dagli anni Venti, di cooperative avicole di tipo socialista, fondate da ebrei dell’Europa orientale. Venivano dagli slums di New York, portarono idealismo, violini e interminabili discussioni politiche prima di trasferirsi in Israele o in Unione Sovietica. Luogo curioso, Petaluma, con cassette di uova dappertutto. Hanno imposto che le gabbie per le galline siano abbastanza grandi da far loro muovere le ali, e la cosa è diventata legge nazionale. Ospita ancora oggi il campionato nazionale di braccio di ferro, cui Snoopy, nei suoi sogni, partecipa, e vince, battendo nientemeno che il Barone Rosso.
Se invece volete vedere Santa Rosa com’era una volta, quando i nostri famosi bambini stavano per nascere, qui è stato girato un film di Alfred Hitchcock, L’ombra del dubbio, addirittura del 1943: una piccola città, ordinata, pulita in cui arriva uno straniero con orribili segreti.
I Peanuts hanno vissuto lì da quando Charles M. Schulz cominciò a disegnarli stabilmente, nel 1950, fino alla morte, nel 2000. Sono tutti bianchi della classe media (Franklin, l’unico nero, verrà introdotto nella striscia nel 1968, dopo la morte di Martin Luther King), abitano nei suburbi, vanno a scuola, giocano, si confidano tra loro nel loro Olimpo, senza che nessun adulto compaia mai a disturbarli. Sono diventati i compagni di scuola e dopo scuola di tutto il mondo. E tutto il mondo si è estasiato per la fantasia del loro vero capo, mentore, modello di vita: quel cagnolino di razza beagle che si chiama Snoopy.
A quindici anni dall’ultima striscia, Snoopy & Friends. Il film dei Peanuts diventerà un evento planetario (uscita in Italia il 5 novembre). Film d’animazione dell’ultima generazione di computer grafica, in 3D, è una megaproduzione Blue Sky, Fox Animation ed Eredi Schulz con bacino potenziale di 350 milioni di persone, tanti erano i fedeli lettori delle strisce; una colossale scommessa affidata al regista Steve Martino (Era glaciale 4). Le ultime strisce dei Peanuts sono comparse nel 2000, pochi mesi prima della morte del loro creatore. Per volere di Charles Schulz, nessuno è stato più autorizzato a disegnarle o a sfruttare i suoi personaggi e la famiglia Schulz detiene tutti i diritti. L’idea della trasposizione cinematografica venne a Craig Schulz nel 2007. Seguì l’ingaggio del figlio Bryan (sceneggiatore di professione). Nella lunghissima trattativa per la cessione dei diritti, Craig si è assicurato che «il film resti in famiglia», ovvero che non venga tradito lo spirito delle strisce. Poche, ma cruciali le informazioni sulla trama: Linus non avrà in mano un iPad, i bambini useranno ancora il telefono di casa a parete e Snoopy la macchina per scrivere meccanica, in compenso andrà a Parigi e incontrerà finalmente il Barone Rosso; avrà un volto anche la Ragazzina dai capelli rossi, l’amore segreto e non corrisposto di Charlie Brown, che Charles Schulz non aveva mai disegnato in cinquant’anni.
Craig Schulz mi racconta di quanto il lavoro di Steve Martino sia stato minuzioso. «Hanno passato un anno qui a Santa Rosa, hanno voluto vedere tutto, il tipo di carta e l’inchiostro che usava mio padre, le passeggiate che faceva, i vestiti che indossava. La magia di quelle tavole è che sono il frutto di un lavoro artigianale, solitario, che non c’entra nulla con il computer. E il rischio era che il 3D e le nuove tecnologie non rispettassero quel calore che mio padre riusciva a creare. Volevano arrivare a riprodurre la leggerezza del pennino con la china che scivola sulla carta nel software della computer grafica. Per ricreare i personaggi hanno fatto centinaia di prove del suono dei passi, dei movimenti. Hanno addirittura ripassato tutte le facce di Charlie Brown per scoprire come si muovono le sue rughe a seconda dei suoi stati d’animo. Ne hanno catalogate più di cento, e dire che quella faccia sembrava una normale luna piena».
Il segreto della magia, però, stava tutto nella testa del papà di Snoopy, che per altro era conosciuto per la timidezza e la completa riservatezza. Il museo che gli è stato dedicato a Santa Rosa ne è un po’ il simbolo; la sua massima attrattiva sta in un colossale puzzle, costruito con 2.500 strisce che formano la scena madre della saga: Lucy che per l’ennesima volta toglie il pallone mentre Charlie Brown sta per calciare. Per il resto, ci sono la sua scrivania da lavoro (che è una normale scrivania), la cuccia di Snoopy impacchettata (e regalata) da Christo e una collezione di strisce e memorabilia. Nella città, a ricordarne la presenza, un palazzetto del ghiaccio il cui foyer è intitolato al Warm Puppy, il diner dove andava a mangiare («il tavolo è quello» dice la cameriera senza emozione, «si sedeva sempre lì»). L’aeroporto regionale di Sonoma, però, è intestato a lui, e Snoopy ne è il simbolo. Snoopy, che insieme a Charlie Brown è stato davvero sulla Luna: l’equipaggio dell’Apollo 10 decise di dare i loro nomi ai due moduli lunari prima dell’allunaggio. (Li sentirono tutti, mentre lo comunicavano a Houston e dalla Terra la Nasa gli rispose di essere più seri).
Schulz è stato un predicatore laico per la Chiesa protestante, un buon giocatore di hockey su ghiaccio, un veterano della guerra («l’esercito mi ha insegnato tutto quello che avevo bisogno di sapere a proposito di solitudine») e un uomo di costumi frugali pur essendo diventato ricchissimo. A un giornalista che gli chiese, alla fine degli anni Ottanta, che effetto gli faceva guadagnare 87 milioni di dollari l’anno, più di Michael Jackson, rispose: «Toh, il mio commercialista mi aveva detto che erano molti di meno».
Era un buon padre, chiedo a Craig? «Oh, sì» mi dice. «Disponibile, ci aiutava nei compiti e quando lo invitavamo a giocare a pallone, non si faceva pregare. Usciva dallo studio e giocava con noi».
Ma i vostri compagni di scuola le conoscevano le strisce? «Certo, eravamo diventati anche noi dei personaggi famosi. Volevano sapere dettagli, particolari, tanto che noi figli eravamo istruiti a non dare troppa corda e a non farci troppo belli. Papà riceveva tantissime lettere, e rispondeva a tutti. Quando si ruppe la cuccia di Snoopy, fu sommerso dai consigli su come farne una nuova».
Suo padre le insegnò a disegnare? «No, e neanche ai miei fratelli. Evidentemente non eravamo portati e infatti nessuno di noi disegna o dipinge. E anche mio padre, oltre ai cartoon, non disegnava, né dipingeva altri soggetti. Duranti i viaggi, invece, faceva degli schizzi su un taccuino. Ma vedeva altre cose da quelle che vedevamo noi dal finestrino del treno. Se si andava insieme a vedere una partita di tennis, lui vedeva Snoopy che colpisce di rovescio o fa uno smash. Mio padre aveva un rapporto particolare con i cani. E anche loro con lui: evidentemente il cane voleva sapere chi era quel tizio che gli riempiva la ciotola, lo portava a spasso, conosceva i suoi gusti. Io credo che Charlie Brown e Snoopy siano andati molto a fondo nel far capire la relazione speciale che c’è tra un cane e il suo padrone».
Secondo lei, Craig perché due o tre generazioni di esseri umani hanno amato così tanto i Peanuts? «È tutto merito di Charlie Brown, il perdente che però non si arrende mai. Mio padre era uno che parlava poco, ma da qualche parte ha detto che in quel bambino ci sono i traumi che lui aveva sofferto quando era piccolo. I compagni di scuola che lo trattavano male, gli facevano dispetti o lo umiliavano, la paura di non essere all’altezza, la solitudine. È una cosa universale, per questo ci si identifica! E però Charlie Brown è un tipo che non si lascia abbattere mai, che ogni volta ci riprova, che si impegna, che non si lamenta più di tanto, che trova sempre un’altra ragione per essere ottimista. È un eroe, insomma. È l’eroe della stragrande maggioranza del mondo, e capisce anche le sofferenze degli altri, è un amico fedele, è generoso. Alla fine, è il più simpatico di tutti ed è quello con cui vorresti andare a fare una gita».
Cominciata in sordina nel 1950, la saga dei Peanuts divenne quindici anni dopo un successo mondiale, tradotto in 26 lingue e pubblicato da duemila quotidiani (c’è stata anche una versione in latino, con Snupius e Carolus Niger). Di fatto quei bambini furono la risposta ai topi e ai paperi di Walt Disney.
In Italia nel 1963 la Milano Libri pubblicò il primo Arriva Charlie Brown! con prefazione di Umberto Eco in cui si definiva quella di Schulz «letteratura alta», e due anni dopo nacque addirittura un mensile, dal nome Linus, che dura tuttora.
I bambini di Schulz, che parlavano come adulti (ma non c’era nessuna madre a gridare di tornare a casa), reinventarono il linguaggio di tutti i giorni e introdussero gli stereotipi di Lucy sadica, Linus sublimato, Schroeder ossessivo, Piperita Patty e Marcie prima coppia gay («Non chiamarmi capo! Sì, capo!»). Erano tutti stranamente intellettuali, però comprensibili e lettissimi dal Giappone al Brasile; i loro dialoghi spesso erano crudeli, ma le loro emozioni sempre potenti e sincere; non c’era critica sociale o satira, però Linus e Schroeder non si nascondono la paura di essere chiamati a combattere in Vietnam. In cinquant’anni di vita i loro cambiamenti sono stati minimi. Si sono aggiunti bambini di contorno, l’uccellino Woodstock (di cui nessuno sentiva la necessità) e sorelline minori, ma il nucleo originario ha vissuto in uno stato di perenne infanzia indisturbata da guerre, computer, inquinamento e terrorismo. In compenso, i bambini che lo leggevano sono diventati nonni.
Il film ci piacerà? Dico, a noi adulti? «Sarete entusiasti, come lo sono stato io quando ho visto il risultato finale. Charlie Brown ha sempre le stesse scarpe di pelle e le senti scricchiolare sulla ghiaia; senti la consistenza della sua maglietta di cotone con le losanghe; e Snoopy, poi... Ha il giubbotto da aviatore con il collo di pelliccia e quando vola puoi sentire tutto il pelo che si muove con il vento. Sì, è bellissimo».
Enrico Deaglio