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 2015  ottobre 23 Venerdì calendario

«Da ragazzo, mi arrabbiavo tanto. La politica, le ingiustizie nel calcio… i rigori regalati alla Juve e non all’Inter mi mandavano in bestia… Come tutti, poi, sognavo di costruire la mia vita in grande. E sognavo amori, possibili e impossibili». Andrea Bocelli si racconta

«Sarti Burgnich Facchetti, Bedin Guarnieri Picchi, Jair Mazzola Domenghini Suarez e Corso». Declamata dalla “voce” italiana più amata del mondo, anche la formazione della Grande Inter è un’emozione (soprattutto per un tifoso, come chi scrive). «Io mi sono appassionato al calcio con quella squadra. E il Mazzola di allora…». Andrea Bocelli, a dispetto del buio che ha preso i suoi occhi quando aveva 12 anni, sembra rendere tutto facile. Nella grande casa di Forte dei Marmi, è sempre in movimento. Apre la vetrina di un’enorme libreria, dove tiene sax, mandolini e clarinetti vari. «Suono meglio il pianoforte, ma se mi dai uno strumento, mi applico e dopo un po’ qualcosa tiro fuori». Afferra un flauto traverso, comincia a soffiarci dentro. «Carmen», precisa, prima di passare a Mozart. Quando sale in macchina, collega subito l’iPhone: parte l’Aida, a tutto volume, lui canticchia sotto anche le altre voci dell’incisione, oltre alla sua. «È quasi pronta, appena i discografici decidono, uscirà».
Intanto c’è il lancio mondiale di Cinema, il suo 15° album in studio: un successo annunciato, per chi, in 25 anni di carriera, ha venduto 80 milioni di dischi, ha cantato nei più grandi teatri del mondo, si è esibito davanti a un paio di Papi e svariati potenti, da Obama in giù. Le pareti di casa – nel salone, nel piccolo studio di registrazione al piano superiore, lungo i corridoi dove si aggirano il labrador Chopin e il volpino Saetta —, ricche di paesaggi dell’Ottocento e dischi d’oro e di platino incorniciati, straboccano di foto dell’artista in compagnia di un gotha multiforme: Clinton, Armani, Michael Jackson, Richard Gere, Ratzinger, Totti… «Non è una selezione: sono solo quelle che ci arrivano già stampate», spiega semplicemente la moglie Veronica. Al centro della casa, però spiccano varie immagini di papa Francesco, e il papiro di una speciale benedizione per il loro matrimonio (il secondo, per Bocelli, dopo l’annullamento del primo, da cui ha avuto due figli, Amos e Matteo, uno iscritto a ingegneria aerospaziale, l’altro appena 18enne al liceo scientifico, tutti e due studenti di pianoforte, cui è seguita, con le nuove nozze, Virginia, che ha 3 anni).
Il Tao dell’Amore. Tra i 16 evergreen del nuovo disco, i temi del Gladiatore – duettata con Ariana Grande («È stata molto brava, lei che non è abituata a questo tipo di canto») mentre John Travolta partecipa al video —, Il postino e Cheek to cheek, eseguita con la sua signora (che precisa: «È stato un gioco…»). Il tenore racconta: «Ho sempre pensato alle colonne sonore come a un’immensa prateria in cui i compositori possono correre liberamente. Il pop ha uno schema costante: due strofe un inciso, una strofa e l’inciso. Diventa sempre più complicato trovare una grande canzone. Con i film, la musica si fa racconto. E somiglia un po’ all’opera…». Bocelli si sistema in poltrona, si sfila le scarpe. Cambio al volo: «Mi facevano male. Troppo coccodrillo: io sono nato in campagna…».
Ma che posto ha avuto il cinema nella sua vita? «Non ne sono mai stato appassionato», continua, imperturbabile, il Maestro. «Il fatto è che non mi piace rinchiudermi con tanta gente in una sala. Ho amato Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, con Giancarlo Giannini e Mariangela Melato, un tempo mi piaceva anche un attore come Renzo Montagnani. Ma io amo i libri, leggo di tutto: Tolstoj, Dostoevskij, Gogol, e poi Flaubert, Maupassant, Anatole France, Camus. Non solo: per dire, ieri sera ho finito Il Tao dell’Amore di Jolan Chang, che avevo preso a caso, su questa tecnica dell’armonia sessuale secondo la filosofia antica cinese. Ebbene, quando le pellicole nascono da libri che conosco, finisce che le trasposizioni cinematografiche mi deludono. Allora, se capita, vedo un film in casa, con la mia famiglia: ma come avrà notato, dove si mangia la tv non c’è. La famiglia deve parlare, ai figli bisogna dedicare il tempo. Dalle mie parti si dice: se si seminano fave, non ci si può meravigliare se nascono baccelli».
I brani scelti per Cinema, comunque, hanno una parte significativa nella vita di Andrea Bocelli. «Come fan di Sinatra, ascoltavo già Moon River. Amavo Maria, da West Side Story (del direttore-compositore Leonard Bernstein), e The Music of the Night, dal Fantasma dell’Opera. Il brano tratto da Il Padrino, che ho cantato in siciliano, è una vera poesia».
Il tema del Dottor Zivago, poi, lo conosceva bene chi andava a sentirlo quando – studente universitario – batteva la riviera suonando nei piano bar. «Non si scappava: quando arrivava Sanremo, il giorno dopo il festival dovevo subito suonare le canzoni di maggior successo. Ma per il resto, potevo scegliere, e Zivago era fra i miei preferiti. Bei tempi! Allora sì che ero giovane e spensierato… Eppure mi sembrava di aver pensieri. Oggi ho i pensieri e alla fine ho imparato a essere spensierato». Quali pensieri? «Da ragazzo, mi arrabbiavo tanto. La politica, le ingiustizie nel calcio… i rigori regalati alla Juve e non all’Inter mi mandavano in bestia… Come tutti, poi, sognavo di costruire la mia vita in grande. E sognavo amori, possibili e impossibili: in fondo, come ci dice il filosofo Schopenhauer, l’uomo è al servizio della specie, tutto ricade – anche questa schiavitù nei confronti del dio danaro – sotto la nostra necessità di avere amore». E i pensieri di oggi? «Sono legati al mondo che diventa sempre più complicato. La burocrazia che ti frena, nella quale rimani invischiato. È questa la quotidianità, nel nostro Paese. Io sono un uomo del fare. Mi piace realizzare e veder crescere le cose. Non sono solo io: tanti italiani avrebbero piacere a veder girare la ricchezza – e come si studiava anche con Keynes all’università, è facendola girare che se ne produce altra —; al contrario, la ricchezza ferma porta miseria. (Si sente un ring-ring come quello dei telefoni di una volta: «È il mio cellulare, lasciamolo suonare»). Invece, anche se vuoi aprire una finestra, devi produrre una tale quantità di fogli che alla fine lasci tutto com’era».
Allora, poi, era l’opera ad aver già catturato l’anima di Bocelli. «È sempre stata la mia passione. Puccini, Rossini, Donizetti, ma anche i francesi Massenet, Bizet e Gounod, che ho cantato tanto…. Il 90% della musica che ascolto è lirica. Mi piace anche la letteratura pianistica, i romantici su tutti. Chopin, Schumann, Schubert, Liszt. E poi le belle voci di oggi: Celine Dion, Christina Aguilera, c’era Whitney Houston…». L’opera, però, ormai fatica a trovare fan. «La lirica somiglia al calcio: se vai a vedere una partita di quarta serie, vedi 22 scemi che rincorrono un pallone, se viceversa giocano i fuoriclasse, anche se non ti piace quello sport, rimani colpito. A un ragazzino oggi direi: vai a vedere un’opera dal vivo. Una bella però, sennò senti urla e poco più. Purtroppo, poi, la lirica non è nata per la tv: nonostante le tecnologie che abbiamo, non è ancora possibile registrare bene l’opera in teatro. I microfoni hanno bisogno di prossimità, invece i cantanti si muovono di continuo».
L’uomo felice. Andrea Bocelli ha sempre detto di essere in debito con la vita. Non una considerazione così scontata, tutto sommato. «Sono un uomo fortunato. L’uomo fortunato è quello felice, e io sono felice…». E che cosa fa sì che lo sia? «L’uomo è felice quando è appagato negli affetti. Io sono nato in una famiglia unita e sono stato amato fin da bambino. Ho avuto fortuna nelle amicizie: i miei amici di oggi sono quelli di sempre, e altri se ne si sono aggiunti. Sento di chi è stato tradito: a me non è mai capitato. Inoltre, ho avuto fortuna in amore. Storie sentimentali bellissime: in particolare quella che vivo oggi. Aggiungo però una cosa sapendo che solleverò molte polemiche. Nella media – naturalmente non parlo di chi è senza lavoro o è malato – molti italiani sono in debito con la vita proprio come me, eppure non lo riconoscono». Forse non ci credono… «Se avessimo l’onestà intellettuale di guardarci intorno, ci renderemmo conto che siamo fortunati. Sì, aprendo i giornali abbiamo l’impressione di vivere in un disastro: corruzione, violenza…. Cose vere, che fanno male allo stomaco. Però viviamo in un Paese in cui queste cose vengono a galla. La nostra è una democrazia malata. Ma intanto è una democrazia. Non sono distanti da noi realtà ben diverse, la Siria, la Turchia... Per sperare in una situazione migliore, comunque, se è vero come è vero che i popoli hanno i politici che si meritano, dobbiamo essere noi cittadini i primi a cambiare. I professionisti che non pagano le tasse, i dipendenti pubblici che vanno alla mutua… perché noi – e mi ci metto anch’io – dovremmo aver diritto a una classe politica onesta?».
Già, perché. «Ma io sono sempre stato un ottimista», continua Bocelli. «Dal giorno in cui ho deciso di lasciare le redini della mia vita al buon Dio, non mi sono più preoccupato se non di fare del mio meglio per realizzare il detto “aiutati che Dio t’aiuta”. E siccome non ho mai avuto la sensazione di poter cambiare il mondo…». Si è abbandonato, diceva… «Non è avvenuto in un momento preciso. Una maestra religiosissima mi aveva dato gli strumenti di base, ma è solo verso i 25-30 anni che ho cominciato a pensare a queste cose. Ho letto i Pensieri di Pascal. Soprattutto, le Confessioni di Tolstoj. Cento pagine che mi hanno sconvolto la vita: lui racconta la sua vicenda spirituale, di uomo che ha perso la fede quando aveva 12 anni, perché il fratello maggiore arrivò a casa dicendogli “Tutte queste cose su Dio sono frottole che ci raccontano gli adulti”. Lui gli credette, e dovette riconquistare la fede negli anni, con una battaglia senza quartiere». Come lei? «Ha presente Aut Aut di Kierkegaard? A un certo punto dice: se dovessi lasciare una cosa ai miei figli, lascerei la volontà di scegliere la parte giusta da cui stare. Io, a un certo punto, mi sono trovato a scegliere fra deificare il caso e sentirmi il frutto di una volontà intelligente. Più vado avanti, più vedo che chiamiamo “caso” tutto ciò che non riusciamo a spiegare con la nostra mente limitata». Un esempio? «Se giochiamo alla roulette, diciamo che la pallina va sul 13 rosso per il caso: invece ci va perché noi ce la tiriamo, e se sapessimo calcolare le forze in base alle quali va lì, parleremmo non di caso ma di qualcos’altro. Siccome l’uomo è superbo, e lo è tanto più è intelligente, esclude Dio e si affida al caso».
Bocelli sceglie Dio, e il settimanale Time, pochi giorni fa, per il viaggio di papa Francesco in America, ha chiesto a lui l’editoriale di presentazione. «Quando Bergoglio venne fuori da San Pietro, appena eletto, e disse “buonasera”, piansi», ricorda ora. «La sua voce mi trasmise un’emozione fortissima. Sono un uomo di campagna, mi hanno sempre insegnato che gli uomini non piangono. Che è vergognoso. E non ho mai pensato, neanche lontanamente, a piangere, prima di quel momento. Nemmeno quando è morto il mi’ babbo. Mi trovavo con due miei amici di sempre alle terme, in Toscana: davanti a loro mi sono vergognato come un ladro, ma il nuovo Papa mi ha comunicato una felicità incontrollata. È come se la mente mi avesse detto: “Quest’uomo qui farà tanto bene all’umanità”». Sì, ma in base a cosa? Alla semplice percezione della sua voce? «L’uomo si affida sempre ai cinque sensi, ma ce ne sono tanti altri, benché non razionalizzabili: sennò come avrebbe fatto l’uomo del Settecento a credere alle onde radio? Che dall’America si sarebbe potuta mandare musica da ascoltare qui? Oggi è realtà, allora solo un’idea. Ci sono linguaggi “criptati” dell’uomo che arrivano, ti parlano, ti toccano: non siamo solo ciò che appare all’occhio e all’orecchio di chi ci vede e ci ascolta. E io sono abbastanza sensitivo».
La Chiesa di Bergoglio, in questi giorni, si trova di fronte a diverse istanze: le nozze gay, la registrazione di un’adozione a parte di due donne omosessuali, la comunione ai divorziati risposati… «Mi piacerebbe dare una risposta di qualche tipo a tali quesiti. Ma in questi casi ci vuole prudenza. Uno giudica sempre sulla base della propria esperienza, invece, quando si affrontano temi di questa delicatezza, bisogna avere una conoscenza a 360°. Io non ce l’ho. Non perché sono famoso mi metto a pontificare…». E se invece il pontefice spingesse in una determinata direzione? «Spingo con lui! A New York, nella cattedrale di St. Patrick, il Papa ha appena fatto un discorso forte. Ai senza tetto ha detto: voi siete Cristo; poi ha puntato il dito su tutti gli altri, su di noi – io non c’ero ma è come se ci fossi stato —, e ha detto: se non vi fermate ad ascoltare i poveri, a vedere cosa fare per loro, non dovete neanche venire in chiesa, perché venite a perdere tempo».
C’è un altro incontro che, più dei moltissimi altri che ha avuto («I potenti spesso non distinguono l’Elisir d’amore dall’Aida», precisa con un sorriso), ha colpito Bocelli. «Quello con Cassius Clay, alias Mohammed Ali. Ero a un concerto a Phoenix e ho conosciuto casualmente, in ascensore, il presidente della sua fondazione. Il giorno dopo mi ha accompagnato a casa sua. Lì ci siamo conosciuti: il giorno successivo è venuto al mio concerto e si è messo in prima fila. Poi l’ho rivisto in altre circostanze. Ha una personalità incredibile. È un uomo che ha fatto scelte esemplari: ha deciso di rinunciare alla corona di campione del mondo per non andare ad ammazzare della gente (in Vietnam, ndr). Ragazzi, queste sono cose che hanno un valore, nella vita. Di fronte a persone così, senti subito di volergli bene, in qualche modo». Ce n’è qualcuna anche tra i molti protagonisti della musica che ha incontrato? Luciano Pavarotti, per esempio. «Io ero ossessionato dal carpire tutto ciò che poteva insegnarmi. Sapevo che lui sapeva. Così parlavamo spesso di tecniche di canto». Ed è riuscito a “ottenere” i suoi segreti… «Mi c’è voluto parecchio. Gli facevo anche delle lunghe telefonate, quando ero fuori: mi mettevo lì, facevo domande… e lui non finiva mai di rispondere».
Andrea Bocelli ha un’agenda planetaria di ferro. Una quarantina di concerti all’anno in tutto il mondo: «Non ne ho quasi mai cancellato uno», precisa con orgoglio. «Solo quando l’Italia ha vinto i mondiali, nel 2006: ho gridato al punto da perdere la voce, e ho dovuto disdire le tre date previste in Inghilterra». Poi ci sono le opere liriche, da studiare e poi cantare («La cosa che preferisco, ma è poco remunerativa, occorre bilanciare gli impegni…»), i dischi da incidere, gli impegni della sua Fondazione benefica. «Tutto molto faticoso. E io odio girare il mondo: ogni volta che prendo l’aereo, mi aspetto che succeda qualcosa da un momento all’altro...». Ironizza: «Il padre della filosofia moderna, Immanuel Kant, non è mai uscito da Konigsberg. Era talmente abitudinario che quando passava, la gente rimetteva a posto l’orologio… eppure, avrà capito il mondo quello lì? Non è poi necessario viaggiare…».
A lui, di Paesi da vedere ne mancano ormai pochi. «Fra quelli in cui si possa cantare, c’è l’India: a Dio piacendo, nel 2016 andrò anche lì. Mi ha invitato il maestro Zubin Mehta a cantare per i suoi 80 anni. Ma la mia priorità, in assoluto, restano i figli. Prima vengono loro, poi tutto il resto. Penso che sia più importante un’ora che passiamo insieme di una qualunque cifra in più che possa andare a guadagnare all’estero». In concreto, come decide? «Quando possono, vengono con me. Sennò esiste Skype, esiste Facetime…. Per assurdo, c’è il rischio che ci si senta di più quando sono fuori!». “Esserci” è decisivo, per papà Bocelli. «I ragazzi chiudono sempre le orecchie alle parole, ma tengono gli occhi aperti sugli esempi pratici. Io mi sforzo di darglieli. Se mi metto a dare consigli mi vedono come matusalemme, se dico “studiate, perché la vita… eccetera” non vedono l’ora che finisca il discorso. Ma se mi vedono partire stanco, ritornare stanco… e vedono che da questa mia attività deriva il loro benessere, la loro sicurezza, il gioco è fatto».
Cantando sotto la doccia. Con i figli, come nella vita, c’è una domanda ultima: che cosa vogliamo lasciare di noi. «Mi piacerebbe che di me rimanesse un buon ricordo. E spero di seminare un po’ di bene», dice Bocelli. «Io non ho mai dato troppa importanza alle cose che faccio. Dalla mia attività non derivano né la libertà né la salute di nessuno, come invece ho sempre pensato di un avvocato o di un medico. Sarà che ho passato un po’ di tempo negli ospedali, quando ero bimbetto, e forse ho idealizzato i dottori…». Ora, però, con la Fondazione, l’idea di lasciare un segno c’è: è stata appena battuta all’asta, a Firenze, una scultura – a grandezza uomo – del tenore seduto su una celebre poltrona di Alessandro Mendini, firmata da MarbleMan. «È di marmo, ma l’ha creata un robot attraverso un procedimento che passa prima dalla fotografia in 3D. L’ha acquistata (per 700 mila euro, ndr) un magnate americano: la metterà nell’atrio del padiglione d’ospedale che ha creato a sue spese per i malati di Alzheimer. Un problema c’è, comunque». Quale?  «In Italia è difficile tutto, ma in particolare è estremamente difficile far del bene. Vieni guardato subito con sospetto. “Chissà cosa ci farà con quella fondazione? Chissà perché l’ha messa su?”: anche prima di creare la mia, ho sempre sentito fare questi discorsi. Eppure, dal niente, grazie a quei soldi, potranno nascere due scuole ad Haiti là dove, fino a un attimo prima, c’era la disperazione. I bambini studieranno, mangeranno… Ma lo sa che in Italia si può scaricare di più per finanziare la politica che per il no-profit? Questo è un fattore di civiltà…». Può essere un suo suggerimento a chi è alla guida del Paese? «Le cose vanno dette, poi chi di dovere deciderà».
Ancora una curiosità: Andrea Bocelli canta sotto la doccia? «Sa perché anche i grandi cantanti amano farlo? Di solito il bagno è un locale piccolo, e a tutti sembra di avere una voce gigantesca… Ebbene sì, anche a me piace: faccio vocalizzi».
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