Sette, 23 ottobre 2015
Venticinque anni fa moriva Ugo Tognazzi. Era il 27 ottobre 1990 e a Cremona lo ricordano così
Il lungo e il corto si ritrovano insieme quasi per caso, nell’Italia che sognava di crescere e amava ridere, nei giorni lieti ed aspri degli anni Cinquanta. Venivano dalla palestra più vivace di quei tempi, il teatro di varietà e l’avanspettacolo. Erano assai diversi fra di loro e per questo la coppia fece scintille (specialmente nella tv dello scapigliato Un, due, tre). Il “lungo” si chiamava Raimondo Vianello: elegante di natura, era nato a Roma da una famiglia altoborghese (il padre era ammiraglio) e i genitori sognavano per lui una bella carriera diplomatica. Il “corto” era Ugo Tognazzi, un lombardo dal carattere estroso, uno capace di saltare dai pur fulminanti siparietti comici della scapigliata gioventù a una forte e ben strutturata carriera d’attore, come dire dalla commedia buffa al dramma da vita agra, con fiera e disinvolta finezza. Dal 24 ottobre, a Ugo la città di Cremona, in cui nacque nel 1922 e in cui rischiò di rimanere a vivere da onesto contabile in un salumificio, dedica un’affettuosa mostra (anzi due) con video rari, foto dai set, manifesti originali e nuove locandine reinterpretate da artisti contemporanei: al centro della piazza un monumento al torrone, dolce gloria locale, prediletta dall’attore. Sono passati venticinque anni dalla sua improvvisa scomparsa, un fatale sussulto nel sonno il 27 ottobre del 1990.
Successo crescente. Il tempo è fuggito ma la memoria non si è spenta: si ricordano con dolcezza di lui gli amici, le mogli e affettuosamente gli altri, a cominciare dai figli che, sotto il suo segno, si sono dati anche loro al cinema. E i comuni spettatori discutono ancora su qual è il Tognazzi migliore: il “supercazzolaro” conte Mascetti di Amici miei, il quarantenne in amore per una “ninfetta” (così si diceva allora) della Voglia matta (Luciano Salce, 1962) – la commedia amara con l’acerba e fuggitiva Catherine Spaak – che ora dà il titolo a una delle mostre di Cremona; o magari (è la mia scelta) il pugile suonato che chiude, su una spiaggia triste insieme all’amico Gassman, l’irripetibile galleria de I mostri (Dino Risi, 1963). Verrebbe quasi la tentazione di fermarsi sugli anni verdi da allegri “cadetti di Guascogna”, e in particolare sugli indimenticati duetti televisivi di Un, due, tre, ricchi di invenzioni e parodie. L’ultima, una garbata allusione a una caduta, col sedere per terra, dell’allora presidente della Repubblica Gronchi, costò alla coppia il brusco licenziamento dalla timorata Rai. Cominciata nel gennaio del 1954, e continuata con crescente successo per 5 anni, la trasmissione fu sospesa d’autorità nell’agosto del 1959. Fu uno schiaffo sonoro, ma anche una fortuna (almeno per Ugo) perché pochi mesi dopo avvenne la svolta. Fu una lunga corsa in sidecar, una battuta più volte ripetuta durante il viaggio («buca…buca con fango»), uno schizzo ironicamente dolente sull’Italia in rotta del 1945, e improvvisamente con Il federale arrivò il successo, la consacrazione definitiva (o quasi) di quello che sarebbe diventato uno dei “quattro moschettieri” della migliore commedia italiana.
Lo scatto tanto agognato. La storia forse la ricordate: in piena disfatta, mentre i gerarconi scappano, l’ottuso ma zelante Primo Arcovazzi (Ugo naturalmente) viene incaricato di portare sino a Roma un illustre prigioniero politico, il filosofo antifascista Erminio Bonafé. L’avventura non sarà facile. Ma era importante mandare un segnale diverso. Fu un successo clamoroso, anche se qualche critico sciagurato parlò di qualunquismo.Tognazzi si era reso conto dell’importanza dell’occasione, già prima che la lavorazione cominciasse. «Avevo fatto un numero non contato di film, una cosa vergognosa. Pensavo sempre che sarebbe stato l’ultimo. Pensavo: prendiamo quel poco che il cinema può dare e dopo torniamo a fare il nostro bel teatro, la nostra televisione… Ci voleva uno scatto e ci speravo». Da allora la carriera continuò in discesa, anche se non mancarono scivoloni e intoppi. Il personaggio del candido fascista fu riproposto in una commedia un po’ sottovalutata di Risi, La marcia su Roma, sempre con Gassman al fianco. Si alternarono i personaggi meschini e quasi sordidi, gli eroi borghesi o proletari, i guerrieri e i buffoni. E Ugo fu sottile e misurato nelle parti travestite o eroticamente insolite (da Splendori e miserie di Madame Royale al fortunatissimo Vizietto). Girare con autori massimi non lo spaventava: con Bernardo Bertolucci dette il meglio in un film imperfetto ma piuttosto profetico per l’Italia come La tragedia di un uomo ridicolo che nel 1979 gli valse il premio come migliore attore a Cannes. Al di là dei premi, i registi del cuore restano Monicelli e Marco Ferreri. Con lui, dall’Ape regina al banchetto funebre de La grande abbuffata, fu una strana amicizia fatta di sguardi e silenzi: «Con Ferreri incontrai il cinema inteso in un altro modo, incontrai una specie di ribelle e di maledetto… Di primo impatto era un personaggio difficilissimo, di poche parole, intimidente, che ti diceva al massimo “Sarà un film bellissimo”, ma non ti arruffianava affatto il progetto… ma superato il primo momento diventò uno dei miei amici, di quelli che se hai un problema lo dici a lui e viceversa». A un certo punto Ugo fece anche film tutto da solo, regista e interprete, con una vena cupa, vicino al funerario; ottenne qualche buon risultato (Il fischio al naso da un racconto di Buzzati), ma fu accolto distrattamente dai recensori (mi metto nel gruppo dei pigri). La cosa lo deluse mentre i giorni e i film si accavallavano veloci. Passati i sessanta anni, forse proprio per la sua gran voglia di vivere, Tognazzi fu preso da una strana malinconia, o almeno così sembrava a vederlo da lontano. Forse la leggenda del gran cucinare e delle feste tra amici lo aveva stancato come fosse uno dei personaggi de La grande abbuffata; e a suo modo, parlando di cucina (non solo?), lui l’aveva previsto: «È meglio rinunciare a qualcosa, piuttosto che correre il pericolo di aggiungere troppo burro, troppa crema».