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 2015  ottobre 23 Venerdì calendario

Inflazione troppo bassa in Europa, o rincara il petrolio o dovrà calare l’euro

Un inseguimento difficile. Raggiungere l’inflazione “ottimale” – inferiore ma vicina al 2% – si sta rivelando per la Bce un compito davvero complicato. Per un motivo molto semplice: alcuni dei fattori che tengono i prezzi freddi sono globali, e sfuggono al suo controllo.
Il petrolio, tra questi, è il principale. La sua flessione dura da tempo. A lungo si è pensato che sia legata all’aumento dell’offerta; ora però emerge – ha detto il presidente Mario Draghi – una domanda inferiore al previsto che rappresenta un ulteriore shock sui prezzi. Il calo del greggio è (anche) un bene per l’economia di Eurolandia: dalle ricerche empiriche della Bce è emerso che i consumatori usano tutte le risorse “liberate” dalla flessione del petrolio per acquistare nuovi beni: il reddito reale disponibile e i consumi crescono allo stesso ritmo. I risparmi restano «piatti», fermi, anche a causa di tassi e rendimenti molto bassi: la politica monetaria sta quindi avendo un effetto, secondo la Bce, anche sull’economia reale.
L’effetto problematico del calo del petrolio è nel fatto che l’energia in genere è così importante nel paniere dei consumi – il 10% del totale – che la loro flessione rallenta, e in certi mesi riduce, l’indice dei prezzi. È capitato a settembre, quando l’indice complessivo di inflazione di Eurolandia è calato dello 0,1% mentre il sotto-indice che esclude l’energia è aumentato dell’1%: non abbastanza, ma comunque una velocità più elevata.
Può la Bce ignorare l’andamento del petrolio? La risposta da “manuale teorico della politica monetaria” è: sì, anzi deve. Si tratta di un singolo prezzo, per quanto importante, il rialzo comporta un reindirizzamento del reddito verso altri beni di consumo (o il risparmio, nel caso). C’è invece disinflazione, deflazione (o, al contrario, inflazione) quando i movimenti dei prezzi sono generalizzati; e solo allora la banca centrale deve intervenire.
La Bce avrebbe però riscontrato una correlazione tra l’indice dei prezzi complessivo – mosso in questa fase principalmente dal petrolio – e le aspettative di inflazione a medio termine, che sono più importanti dell’inflazione. La politica monetaria cerca infatti di plasmare le aspettative più di ogni altra cosa. Un’azienda che deve varare un investimento, un lavoratore o un sindacato che devono chiedere un aumento di stipendio devono tener conto dell’inflazione futura. Spesso, per formare queste aspettative, non si ha altro a disposizione che l’inflazione passata. In questa fase, sembra invece che l’andamento del petrolio, e le aspettative sul prezzo del petrolio, siano il fattore dominante.
Se il greggio calasse ancora, le aspettative di medio periodo potrebbero allora «disancorarsi»: non puntare più al 2% ma a un livello più basso. Non è un rischio attuale, ha spiegato Draghi, ma un’eventualità che va evitata.
Non sarebbe in realtà un bene anche questo? L’aumento dei consumi legato al calo del petrolio non è un bell’aiuto alla ripresa... Non è così, in un’economia fondata sul credito. Quando si abbassa l’inflazione – ha ricordato il vicepresidente Victor Constancio – aumenta il valore reale del debito e aumentano i tassi reali, che sono più importanti di quelli nominali. Un’impresa che vede i suoi prezzi – e non i salari... – calare sa che deve vendere più prodotti per ripagare i suoi debiti: nuovi investimenti potrebbero essere disincentivati.
Senza contare che c’è un problema di misurazione: gli indici non sono precisi, in genere sovrastimano l’andamento dei prezzi (fino a 1,5 punti percentuali negli Usa). Un po’ di inflazione, almeno nelle attese, dunque serve e per questo occorre un petrolio un po’ più chiaro. La Bce però non ha il potere di far rincarare il greggio.
A meno che non cali (quanto a lungo?) l’euro. La politica monetaria può, con difficoltà, “indirizzare” il cambio. Senza dirlo – gli operatori la sfiderebbero a mostrare le unghie e a svenarsi per acquistare valuta – e con la speranza che l’economia globale la aiuti. Per deprezzare l’euro occorre che la politica monetaria della Bce appaia in prospettiva molto più espansiva di altri paesi, a cominciare dagli Usa. Ovunque però la ripresa è tiepida: un fattore che imporrebbe a Francoforte un orientamento molto, molto aggressivo. La Bce dice di essere «pronta». Anche a questo?