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 2015  ottobre 23 Venerdì calendario

La passione tra Tomasi di Lampedusa (autore del “Gattopardo”) e la moglie Licy. Quattrocento lettere

«Mio angelo», scrive lei. «Muri mia», risponde lui. Le lettere viaggiano tra Palermo, Roma, Berlino, Riga. Attraversano delusioni, opposizioni familiari, censure, bombardamenti della guerra, (poche) scintille di gioia. Raccontano un quarto di secolo, dal fatale 1932 in cui i due si erano sposati – lui, il principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa; lei, la principessa lettone Alexandra Wolff Stomersee, detta Licy – fino al 27 maggio 1957, quando lo scrittore avrebbe lasciato poche dolenti disposizioni testamentarie tra cui la volontà «che della mia morte non sia fatta nessun genere di partecipazione né attraverso la stampa né in altri modi» e il desiderio «che si faccia il possibile affinché sia pubblicato il Gattopardo», ma «non a spese dei miei eredi, considererei ciò come un grossa umiliazione».
L’anno successivo quel romanzo, edito da Feltrinelli, avrebbe venduto un milione di copie per poi vincere il Premio Strega, avere traduzioni in quindici lingue e consacrarsi tra i romanzi-autobiografia dell’Italia. Licy, allieva diretta di Freud e prima donna a guidare la Società psicanalitica italiana, sarebbe sopravvissuta al marito per venticinque anni.
Adesso l’epistolario tra i due viene alla luce grazie al figlio adottivo dello scrittore – il musicologo Gioacchino Lanza Tomasi – che lo ha messo a disposizione di Silvana Miceli, docente di Psicologia all’Università di Palermo. Un patrimonio di oltre quattrocento lettere, in gran parte inedite, poche delle quali pubblicate su libriccini introvabili, di cui la studiosa ha avviato la catalogazione e che sarà pubblicato dall’Aspi, l’Archivio storico della psicologia italiana.
Carteggio che trasuda una passione insospettabile per una coppia a lungo considerata come cerebrale, distante, separata di fatto, lui a Palermo sempre più depresso e in rovina, lei a Roma tra le case della sorella e della madre. E invece, ecco cosa le scrive nel 1932 invitandola a non subire l’opposizione della famiglia alle loro nozze: «Se ci lasciassimo impressionare, noi guasteremmo la nostra vita».
E ancora, nel 1942, mentre lei è partita per la Lettonia, cercando di recuperare il possibile dal suo castello depredato durante l’occupazione russa: «Io vivo in ansie e preoccupazioni continue e non fo che pensare a te». E poi, sulla soglia della morte, con grafia malferma: «Delle persone vive, io amo solamente mia moglie, Giò, Mirella», dove Giò è il figlio adottivo Gioacchino Lanza e Mirella l’allora fidanzata di lui. «Tra Tomasi e Licy c’è un legame profondo – dice Silvana Miceli – un legame abbastanza irrituale per tempi in cui, come lei denunciava, a una donna era consentito di realizzarsi soltanto come moglie e madre. Tomasi capiva che era una persona libera e ne rispettava l’autonomia».
Ma il carteggio è interessante anche per i rimandi al mondo della psicoanalisi del tempo, quando i primi allievi di Freud come Ernesto Weiss ed Ernst Bernhard si laceravano tra ortodossia freudiana e dissenso junghiano (e Licy era un’ortodossa). Alcune pagine invece rimandano al Gattopardo. Come quella in cui Tomasi descrive un ballo tenutosi a casa della famiglia Trabia. Una sorta di canovaccio del capitolo da cui Visconti avrebbe tratto la celebre scena del film. Quel Gattopardo che proprio Licy avrebbe ispirato, secondo quanto raccontò all’allieva Susy Izzo: «Io e mio marito stavamo seduti sulla panchina a guardare la luna, lui era triste, inquieto, non riusciva ad abituarsi al nuovo palazzo (...). Gli dissi: la luna è uguale in ogni posto, è luce nella fantasia e nell’immaginario, perché – gli chiesi – non ti eserciti a immaginare la vita che ha vissuto il palazzo, com’era, cosa succedeva? Scrivi e tutto vivrà come prima».