Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2015
Borse euforiche, economia reale ancora fragile: perché, nonostante la ripresa e il calo della disoccupazione, l’inflazione globale continua a non crescere? «Questo sembra smentire le regole che si studiano su qualunque libro di economia: più scende la disoccupazione più l’inflazione dovrebbe salire, più aumenta la quantità di moneta più l’inflazione dovrebbe crescere. O vanno riscritti i libri di economia, oppure c’è qualcosa che sfugge»
L’euforia di ieri delle Borse mostra per l’ennesima volta dove cadono i benefici diretti della politica monetaria ultra-espansiva: sui mercati finanziari. È sempre stato così, per tutte le banche centrali. Il problema è che – a dispetto dell’euforia borsistica – l’economia reale resta ancora fragile: non solo in Europa ma anche nei Paesi (come gli Usa) dove il Pil corre.
Lo conferma il fatto che nel mondo è scomparso un elemento fondamentale per avere un’economia sana: l’inflazione. Un «mistero» assilla economisti, ministri e banchieri centrali: perché, nonostante la poderosa mole di stimoli monetari, l’inflazione globale (depurata anche dal fattore energetico) non sale neppure nei Paesi dove il Pil cresce bene? Calcola Morgan Stanley che il 70% dell’economia mondiale soffre di inflazione troppo bassa. Una malattia che fiacca i Paesi industrializzati, ma anche molti emergenti. E che nessuno sa veramente spiegare.
Se agli occhi di un europeo la bassa inflazione può sembrare normale (non potrebbe essere altrimenti con una recessione alle spalle e una disoccupazione elevata), agli occhi di un americano molto meno. L’economia Usa corre infatti del 3,9% e la disoccupazione è scesa al 5,1%: in queste condizioni è dunque molto strano che l’inflazione «core» (quella cioè depurata dalla componente energetica) non riparta davvero. Eppure anche negli Usa resta ferma all’1,9% (dato di settembre «core»), che diventa 0% se si guarda all’inflazione generale. E anche nei prossimi anni non è vista in particolare aumento. Questo sembra dunque smentire le regole che si studiano su qualunque libro di economia: più scende la disoccupazione più l’inflazione dovrebbe salire (curva di Phillips), più aumenta la quantità di moneta più l’inflazione dovrebbe crescere.
O vanno riscritti i libri di economia, oppure c’è qualcosa che sfugge. Nessun economista sa dare una spiegazione certa, pur considerando il calo del prezzo del petrolio. Tutti evidenziano una concomitanza di motivi: l’effetto anche indiretto delle materie prime, la crisi asiatica, il mercato del lavoro fragile, ma anche la digitalizzazione dell’economia, la globalizzazione e l’invecchiamento della popolazione. Elementi strutturali o congiunturali. Che passeranno o che resteranno. Ma nessuno, veramente, risolve il «mistero» della «Lowflation» (bassa inflazione). Nessuno permette di rispondere alla domanda delle domande: l’inflazione tornerà mai a salire davvero? O «Lowflation» è la nuova normalità?
Le cause congiunturali
Le motivazioni di questa situazione sono in parte congiunturali. Ovviamente pesano tantissimo i tracolli recenti delle materie prime. Questo riduce i prezzi di beni e servizi. Dunque l’inflazione. Anche quella «core» (cioè depurata dal fattore energetico) ne risente: se il petrolio e la benzina costano meno – per fare un esempio – anche le zucchine costeranno meno perché i camion che le trasportano hanno spese inferiori. E così via. Calcolano gli economisti di Pictet Am, che una discesa del 50% del prezzo del petrolio (unito all’effetto-dollaro) riduce l’inflazione Usa di un punto percentuale, quella europea di 0,5 e quella cinese di 0,4. Eppure questo non basta a spiegare la situazione attuale: l’effetto-petrolio è normale che si senta nell’inflazione del 2015 (quando il greggio è crollato), ma non dovrebbe sentirsi sul 2016 (perché più di tanto difficilmente scenderà ancora). Eppure le stime non indicano particolari aumenti del costo della vita.
Ci deve essere altro, dunque. A pesare, in effetti, ci sono anche altri elementi congiunturali: «Per esempio – osserva Andrea Delitala di Pictet Am – la congiuntura negativa di Paesi che consumano molta energia». In particolar modo della Cina. Il rallentamento del Dragone e la svalutazione dello yuan esportano deflazione, ma – secondo i calcoli di Pictet – non a sufficienza per tenere il caro-vita così basso per tanti anni. Dunque anche questo spiega, ma solo in parte la «Lowflation». Come la giustifica in parte il fatto che la politica monetaria espansiva sfoga i suoi effetti principalmente sui mercati finanziari e poco sull’economia reale. Una spiegazione congiunturale, o più che altro psicologica, l’ha data al Sole 24 Ore anche il ministro dell’economia Padoan: «È una questione di aspettative – afferma -. Non c’è ancora la piena consapevolezza che siamo usciti dalla crisi e quindi, sotto sotto, nella testa delle famiglie e imprese c’è l’idea che il mondo prodotto dalla crisi sia più debole e con una inferiore capacità di crescita». Anche questo è un motivo, non misurabile, ma valido. Come tutte le altre ragioni congiunturali, però, passerà quando la congiuntura cambierà. Ma l’inflazione non è ugualmente prevista in particolare crescita nei prossimi anni.
Le cause strutturali
«Lowflation» deve dunque avere anche altre cause. La prima è forse la digitalizzazione dell’economia. Morgan Stanley evidenzia almeno tre canali deflazionistici dell’economia 2.0: l’automazione aumenta la produttività e dunque fa calare i costi di produzione; l’e-commerce accresce la concorrenza, dunque abbassa i prezzi; la computerizzazione mette a rischio molti lavori. Secondo Morgan Stanley, chi lavora all’ufficio crediti ha il 98% delle probabilità di vedere il suo ruolo sostituito da un computer nei prossimi due decenni, i receptionisti hanno un rischio del 96%, gli assistenti legali del 94%.
Questo peserà sull’inflazione, perché ridurrà il potere d’acquisto delle famiglie. Del resto in America già questo accade. Uno di motivi per cui la disoccupazione scende ma i salari non aumentano abbastanza (e dunque non portano inflazione) è legato al fatto che molti lavoratori sono precari o sotto-occupati. Negli Usa il tasso di disoccupazione è al 5,1%, ma se si somma anche la sotto-occupazione si arriva al 10%.
C’è poi un altro elemento strutturale, secondo l’economista di Intesa Sanpaolo Luca Mezzomo: la delocalizzazione delle attività produttive. «Se c’è una ripresa della domanda di un bene in un determinato Paese – spiega – l’eventuale carenza di offerta domestica oggi viene compensata dall’arrivo di prodotti esteri». Questo crea uno strutturale eccesso di offerta. Che, ovviamente, tiene bassa l’inflazione. Infine, suggerisce Antonio Cesarano di Mps Capital Services, pesa l’invecchiamento della popolazione mondiale. Questo abbassa i consumi. Dunque l’inflazione. Calcola Moody’s che nei prossimi 15 anni la popolazione mondiale in età lavorativa sarà la metà di quella dei 15 anni passati: una rivoluzione demografica del genere non può passare indenne sull’inflazione.