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 2015  ottobre 23 Venerdì calendario

Le porcherie delle banche italiane e le colpe della Banca d’Italia

Esiste in Italia una questione bancaria. La crisi iniziata nel 2007 ha messo a nudo un sistema troppo frammentato, con una rete di distribuzione bulimica, resa obsoleta da Internet, indebolito dalla bassa qualità del credito, frutto di gestioni inefficienti, a volte sconfinanti nell’illecito, e da una struttura dei costi eccessiva. Trascorsi otto anni, non si intravede la volontà e la capacità di risolverla nell’unico modo possibile: con un vasto processo di ristrutturazioni e aggregazioni fatto nel mercato e a prezzi di mercato. La notizia che il governatore della Banca d’Italia è indagato per il commissariamento della Banca Popolare di Spoleto (Bps), oltre ad essere l’ennesima prova della gravità della questione, è anche l’indicazione che mancano la cultura e gli strumenti giuridici necessari a risolverla. Quando una normale azienda è in dissesto, i creditori cercano un accordo con gli azionisti perché si accollino le perdite e/o cedano la proprietà a chi immette capitali. L’eventuale accordo viene ratificato da un tribunale. In mancanza di questo, il tribunale sottrae la gestione agli azionisti e la affida a un terzo, incaricato di tutelare i creditori. Cardine di una procedura fallimentare è l’allineamento tra interessi dei creditori e potere giudiziario. Nel caso delle banche, i creditori sono migliaia di depositanti che hanno difficoltà a organizzarsi; e l’eventuale fallimento di una banca rischia di incrinare la fiducia nel sistema dei pagamenti. Per questo un’entità pubblica, in Italia la Banca d’Italia, è chiamata ad agire a tutela dei creditori. Il commissariamento di una banca è dunque l’equivalente della procedura fallimentare di un’azienda. Nel caso della Bps la logica di fondo è paradossalmente rovesciata: il potere giudiziario agisce a tutela degli azionisti che hanno portato al dissesto la banca, indagando chi deve tutelare i creditori. C’è evidentemente qualcosa di sbagliato nella disciplina dei dissesti bancari, che invece dovrebbe essere uno strumento efficace per la soluzione della questione bancaria. La nuova legge, in vigore nel 2016, assegna alla Banca d’Italia il ruolo di autorità di risoluzione, e impone soluzioni a prezzi di mercato, con regole uguali per tutti in Europa. Se c’è una critica alla nostra banca centrale, è che in passato ha usato lo strumento del commissariamento con troppa cautela, e troppo tardivamente, privilegiando soluzioni pilotate all’interno del sistema. Un atteggiamento che deve cambiare per affrontare con successo la questione bancaria, specie con l’avvio del nuovo meccanismo di risoluzione: il potere giudiziario deve facilitarne l’utilizzo, non servire da deterrente in mano ai vecchi azionisti. La vicenda Bps dovrebbe far riflettere sulla natura e la gravità della questione bancaria e sull’incapacità di risolverla. Il tanto vantato “radicamento territoriale” del nostro sistema bancario è in realtà il velo sotto il quale gli interessi locali, pubblici e privati, hanno potuto gestire il credito in modo clientelare, il pretesto per mantenere istituti bancari sottodimensionati, con una redditività insufficiente, e lo strumento per costruire imperi senza sottostare alla disciplina del mercato. L’elenco delle banche radicate sul “territorio” commissariate, dissestate, o che hanno vissuto condizioni critiche è lunghissimo: Bps, P. Etruria, Carige, MpSiena, P. Vicenza, Popolare (con Italease), Cr-Teramo, CrFerrara, Veneto Banca (con Bim e P. Intra), B. Marche. Una questione nella questione è quella delle banche popolari, che hanno usato strumentalmente il voto capitario per permettere a interessi particolari di governare molte banche. Per scardinare queste difese corporative e spingere il processo di fusioni e aggregazioni in Borsa, la nuova legge le obbliga alla conversione in Spa. Ma oltre a ricorrere contro la legge, le popolari hanno avviato negoziati per aggregazioni “amichevoli”, nella consapevolezza che questa è l’ultima occasione per concordare una governance e valori che tutelino tutti gli interessi in gioco. È illusorio pensare che le molte crisi bancarie di questi anni possano trovare una soluzione in aggregazioni nel mercato dei capitali, e che si recuperi la redditività con tagli di costi e chiusure di sportelli. Prima è necessario che le attività delle banche siano ricondotte al loro realistico valore di mercato. È lecito dubitare che lo siano, nonostante accantonamenti e stress test. Basta guardare ai prezzi di borsa: il fatto che, con la sola eccezione di IntesaSanpaolo, tutte le banche italiane quotate valgono meno del patrimonio tangibile, con uno sconto di circa il 20% rispetto alla media delle banche europee, significa che il mercato ha qualche dubbio sul realismo dei valori contabili. Dubbio rafforzato dai tanti tentativi di perseguire soluzioni di sistema (avversate dall’Europa), come la bad bank con qualche forma di garanzia statale, il trattamento favorevole dei deferred tax assets, o il ventilato utilizzo del Fondo tutela dei depositi per il salvataggio di banche commissariate. Accordi e soluzioni di sistema vengono giustificati con la necessità di proteggere le nostre banche dagli stranieri, che le comprerebbero a prezzi di saldo, depauperando le imprese del risparmio del “territorio”. Argomentazioni pretestuose. Del vero valore del radicamento territoriale, si è detto. Quanto al rischio di colonizzazione, si fatica a trovare un acquirente per MpSiena, anche se in Borsa vale appena 40% del patrimonio tangibile: il settore è in declino e non c’è la coda di stranieri all’arrembaggio che, invece, dovrebbero essere i benvenuti. La banca italiana che vale di più, l’unica a forte premio sul patrimonio tangibile rispetto alla media europea, è IntesaSanpaolo, dove la maggioranza del capitale è ormai in mano a investitori istituzionali internazionali. È grazie anche alla disciplina del mercato, ai capitali esteri e la conseguente pressione ad adeguarsi ai migliori standard internazionali che la banca si è lasciata definitivamente alle spalle le operazioni di sistema, e presto renderà marginale il legame residuo col “territorio” tramite le Fondazioni, per competere nel futuro mercato unico europeo. Unicredit sta seguendo sulla stessa strada. La questione bancaria troverà una soluzione solo quando ci sarà la volontà e capacità di utilizzare la Borsa per far sorgere dai tanti frammenti e situazioni critiche del nostro sistema bancario qualche altro grande gruppo in grado di competere a livello internazionale.