Johan Cruyff ha un cancro ai polmoni “appena scoperto, sul quale al momento non si può dire niente di più”. Così racconta Edwin Van der Sar sul suo sito, citando fonti vicine alla famiglia dell’immenso ex campione di Ajax e Barcellona. 68 anni, da tempo ex anche del fumo, Cruyff aveva smesso con le sigarette almeno dal 1991, l’anno di una doppia operazione al cuore cui si sottopose per l’impianto di due bypass.
Sopravvissuto allora al primo assalto della sorte, decise di farsi portavoce della battaglia contro il tabacco: in un famoso spot trasmesso dalla tv spagnola e commissionato dal governo catalano, il mitico Profeta del gol appariva in trench, intento a palleggiare e poi a distruggere un pacchetto di sigarette. Dirà, mostrando per la prima volta l’angolo indifeso della sua pelle di uomo mortale dentro la corazza del fuoriclasse: «Ho avuto due grandi vizi nella vita, giocare a pallone e fumare, il calcio mi ha dato tanto, il tabacco stava per togliermi tutto, non fosse stato per mia moglie, che ha minacciato anche di lasciarmi, ora non starei qui». E senza di lui, almeno in panchina (fu tecnico blaugrana dal 1988 al 1996, dopo aver deliziato col pallone il Camp Nou dal 1973 al 1978), non sarebbe nato il primo Barcellona campione d’Europa, quello di Bakero, Zubizarreta, Koeman, Guardiola, quello della finale di Wembley con la Sampdoria, ma anche quello clamorosamente sbriciolato dal Milan ad Atene nel 1994.
Narrava la leggenda che prima del suo esordio da giocatore al Camp Nou, Cruyff s’accese una sigaretta, come tutte le altre una Camel senza filtro, nel tunnel che conduceva al campo di gioco. Un’altra la consumò prima della doccia, al termine della partita. Leggendarie le discussioni sul fumo con Rinus Michels. Una volta, raccontò un suo compagno di squadra, tentando di nascondere all’allenatore una sigaretta accesa sul pullman, si bruciò le dita. Non badava a moralismi il Cruyff calciatore, più volte ritratto nel “vestuario” con una bottiglia di birra tra le mani. Dopo l’intervento e l’abiura al fumo arrivò il consumo compulsivo in panchina di Chupa Chups, un surrogato che divenne, come e più delle sigarette, un vizio.
Nelle prossime ore Cruyff si sottoporrà ad ulteriori controlli per determinare lo stato di avanzamento della malattia e le possibilità di guarigione. Infiniti i messaggi di sostegno, da Gullit al presidente blaugrana Bartomeu, da Stoitchkov a Iniesta e ad Abidal, tutti intorno al Flaco, l’uomo che disse «io ho fortuna, ma Dio sta con me».
Stefano Semeraro sulla Stampa
Un lampo biancorosso, oppure arancione, dentro un mondo ancora in bianco e nero, il numero 14 al posto del 9 stampato sulla schiena. Scatto, assist, gol. E la prima Camel senza filtro accesa già dentro gli spogliatoi. Tutto a testa alta, ovviamente, e l’avversario distante un’epoca: il calcio del passato seminato nel turbine del futuro. Quando nel ’91 al genio messo a sedere dall’ennesimo infarto impiantarono due by-pass, trovare lo slogan per la campagna fu facile: «Nella vita ho avuto due vizi, il calcio e il fumo. Il primo mi ha dato tutto, il secondo ha rischiato di togliermi tutto».
In attesa di altri esami
Efficace ma provvisorio. Perché certi vizi sono come difensori incarogniti, non te li scuoti di dosso: a 68 anni Johan Cruijff, il Pelè bianco, il profeta del gol (copyright Gianni Brera e Sandro Ciotti), deve fare i conti con un tumore ai polmoni. Gliel’hanno diagnosticato una settimana fa a Barcellona, la sua città del cuore, si attendono altri esami per capire la vastità del problema. Quella del suo talento è nota. Tre palloni d’oro come Platini e Van Basten (1971, ’73 e ’74) nel decennio in cui l’Ajax e l’Olanda di Rinus Michels cambiarono marcia, idee, dimensioni al calcio. Si chiamava calcio totale, Cruijff da solo era comunque un universo: visione di gioco, tocco, potenza. Il dribbling-testacoda con cui ribaltava le difese, quei primi cinque-sei metri brucianti in cui, i capelli sparsi nel vento, piantava lì chiunque. Tre Coppe dei Campioni con i Lancieri, due vinte contro Inter e Juventus più una finale persa con il Milan di Rivera. Poi il passaggio al Barcellona, la Liga vinta dopo 14 anni di digiuno, l’amara e leggendaria finale mondiale persa 2-1 con la Germania nel ’74 dall’Arancia meccanica di zio Rinus.
402 gol in 716 gare
A 31 anni si era sentito stanco una prima volta. Ci aveva riprovato negli Usa, Cosmos & dintorni, nell’81 indossò per una sola partita anche la maglia del Milan, nel Mundialito per club, ma non se ne fece niente. Alla fine: 402 gol in 716 partite - calcolate pure la media - e il sequel splendente da allenatore. Sempre sulla stessa rotta: Coppa delle Coppe vinta con l’Ajax, il Barcellona reinventato dalle fondamenta, impostato su Guardiola, Koeman, Laudrup, Stoichkov e sul gioco che oggi chiamiamo tiki-taka. La Catalogna per lui è quello che la Sardegna è per Gigi Riva (ne ha anche allenato la nazionale dal 2009 al 2013) ma in grande. Otto anni sulla panca del Barça e una vendemmia di quattro campionati, una Coppa del Re, una Coppa delle Coppe, la prima Coppa dei Campioni strappata alla Sampdoria di Vialli che fa di lui uno dei sei capaci di impugnare il trofeo con le orecchie sia da calciatore che da allenatore. Cruijff che sta sullo stesso scaffale di Best, Maradona, Messi, Pelè. Cruijff l’arrogante, l’intrattabile, Cruijff che se ne frega. «Mister, i suoi giocatori fumano». «Se sono bravi come me, possono fare quello che vogliono». Però in panchina era passato dalle sigarette ai chupa-chups. «Mi hanno detto che se continuo morirò», spiegava. Un uomo, una storia così, non possono finire in fumo.
Cristiano Gatti, Corriere della Sera
Chiedi chi erano i Beatles, ma chiedi anche chi era Johan Cruijff. Dobbiamo dirlo ai nostri ragazzini, cresciuti al mito di Messi. Chi l’ha visto sa di cosa parlo, chi non l’ha visto non sa cosa s’è perso. Nel gioco del più grande di sempre, io ci metto proprio Cruijff, signore degli anni Settanta, gli anni dopo Pelè e gli anni prima di Maradona. In questo gioco ciascuno ha torto e tutti hanno ragione, perché parlando dei sommi si finisce sempre per fare una scelta faziosa, piena zeppa di ma, di se e di però. Eppure non bisogna esitare, impossibile salvarsi con dieci nomi: e allora io dico solo Johan Cruijff, il campione totale. Totale come il calcio del suo Ajax e della sua Olanda, un calcio allora rivoluzionario e sconvolgente, che soltanto all’epoca nostra sarebbe normale, rivisto e corretto con una verniciata di slang. L’aggressività, la squadra corta, l’occupazione degli spazi, il pressing, la difesa alta, l’ossessiva ricerca del gol: questo era già 50 anni fa lo spartito di quell’orchestra e di quell’impareggiabile direttore d’orchestra.
Cruijff era tutto: grande solista e grande uomo squadra, capitano e gregario, giocoliere e fachiro. Era il colpo di testa, il tiro da lontano, il doppio passo leggero, l’appoggio illuminante dell’ultimo metro e il lancio millimetrico dei 40 metri. Aveva il tocco di Maradona, aveva la velocità di Pelè, ma rispetto a quei due artisti era anche un atleta. Instancabile, dinamico, senza mai correre a vuoto. Era un’icona del suo tempo, come piaceva a Minà.
Se i toni superlativi trascendono, la colpa è sempre della memoria, che deforma la realtà sulle dolci ali della nostalgia. Ma nessun superlativo sarà mai del tutto infondato, per Johan l’immarcabile: caso mai, solo un po’ amplificato. Purtroppo, il superlativo di adesso ha tutto un altro sapore: è mesto e pietoso. Il mito di allora oggi è malatissimo. Gli accertamenti a Barcellona, sua seconda casa, parlano di cancro ai polmoni. A 68 anni, il mito diventa improvvisamente fragile e smarrito. Già nel ’91, Cruijff si era portato avanti con un intervento al cuore. Incallito fumatore, si era subito iscritto all’albo degli ex e si era prestato a una campagna contro i danni del tabacco. Stavolta però è un’altra cosa. Il campione deve lottare di nuovo, ma su un campo che non gli è familiare, dove pressing e aggressività dovrà subirli da un avversario carogna.
E allora augurissimi Johan. Anche da questi colpi bassi, anche dai percorsi più tortuosi e dalle fessure più strette, torna l’onda lunga delle nostre emozioni lontane. In un’altra stagione della vita c’erano i classici del liceo, c’era la colonna sonora di Lucio Battisti, c’erano i sogni cullati controvento dalla sella di una Vespa, e c’erano i dribbling alla Cruijff sui rugosi campetti di periferia. Tutto è cambiato, il mondo e i nostri destini. Ma non c’è niente, neppure la più bieca delle malattie, che riuscirà mai a cambiare il tuo poster seppiato da numero uno.
Stefano Semeraro sulla Stampa
Un lampo biancorosso, oppure arancione, dentro un mondo ancora in bianco e nero, il numero 14 al posto del 9 stampato sulla schiena. Scatto, assist, gol. E la prima Camel senza filtro accesa già dentro gli spogliatoi. Tutto a testa alta, ovviamente, e l’avversario distante un’epoca: il calcio del passato seminato nel turbine del futuro. Quando nel ’91 al genio messo a sedere dall’ennesimo infarto impiantarono due by-pass, trovare lo slogan per la campagna fu facile: «Nella vita ho avuto due vizi, il calcio e il fumo. Il primo mi ha dato tutto, il secondo ha rischiato di togliermi tutto».
In attesa di altri esami
Efficace ma provvisorio. Perché certi vizi sono come difensori incarogniti, non te li scuoti di dosso: a 68 anni Johan Cruijff, il Pelè bianco, il profeta del gol (copyright Gianni Brera e Sandro Ciotti), deve fare i conti con un tumore ai polmoni. Gliel’hanno diagnosticato una settimana fa a Barcellona, la sua città del cuore, si attendono altri esami per capire la vastità del problema. Quella del suo talento è nota. Tre palloni d’oro come Platini e Van Basten (1971, ’73 e ’74) nel decennio in cui l’Ajax e l’Olanda di Rinus Michels cambiarono marcia, idee, dimensioni al calcio. Si chiamava calcio totale, Cruijff da solo era comunque un universo: visione di gioco, tocco, potenza. Il dribbling-testacoda con cui ribaltava le difese, quei primi cinque-sei metri brucianti in cui, i capelli sparsi nel vento, piantava lì chiunque. Tre Coppe dei Campioni con i Lancieri, due vinte contro Inter e Juventus più una finale persa con il Milan di Rivera. Poi il passaggio al Barcellona, la Liga vinta dopo 14 anni di digiuno, l’amara e leggendaria finale mondiale persa 2-1 con la Germania nel ’74 dall’Arancia meccanica di zio Rinus.
402 gol in 716 gare
A 31 anni si era sentito stanco una prima volta. Ci aveva riprovato negli Usa, Cosmos & dintorni, nell’81 indossò per una sola partita anche la maglia del Milan, nel Mundialito per club, ma non se ne fece niente. Alla fine: 402 gol in 716 partite - calcolate pure la media - e il sequel splendente da allenatore. Sempre sulla stessa rotta: Coppa delle Coppe vinta con l’Ajax, il Barcellona reinventato dalle fondamenta, impostato su Guardiola, Koeman, Laudrup, Stoichkov e sul gioco che oggi chiamiamo tiki-taka. La Catalogna per lui è quello che la Sardegna è per Gigi Riva (ne ha anche allenato la nazionale dal 2009 al 2013) ma in grande. Otto anni sulla panca del Barça e una vendemmia di quattro campionati, una Coppa del Re, una Coppa delle Coppe, la prima Coppa dei Campioni strappata alla Sampdoria di Vialli che fa di lui uno dei sei capaci di impugnare il trofeo con le orecchie sia da calciatore che da allenatore. Cruijff che sta sullo stesso scaffale di Best, Maradona, Messi, Pelè. Cruijff l’arrogante, l’intrattabile, Cruijff che se ne frega. «Mister, i suoi giocatori fumano». «Se sono bravi come me, possono fare quello che vogliono». Però in panchina era passato dalle sigarette ai chupa-chups. «Mi hanno detto che se continuo morirò», spiegava. Un uomo, una storia così, non possono finire in fumo.
Cristiano Gatti, Corriere della Sera
Chiedi chi erano i Beatles, ma chiedi anche chi era Johan Cruijff. Dobbiamo dirlo ai nostri ragazzini, cresciuti al mito di Messi. Chi l’ha visto sa di cosa parlo, chi non l’ha visto non sa cosa s’è perso. Nel gioco del più grande di sempre, io ci metto proprio Cruijff, signore degli anni Settanta, gli anni dopo Pelè e gli anni prima di Maradona. In questo gioco ciascuno ha torto e tutti hanno ragione, perché parlando dei sommi si finisce sempre per fare una scelta faziosa, piena zeppa di ma, di se e di però. Eppure non bisogna esitare, impossibile salvarsi con dieci nomi: e allora io dico solo Johan Cruijff, il campione totale. Totale come il calcio del suo Ajax e della sua Olanda, un calcio allora rivoluzionario e sconvolgente, che soltanto all’epoca nostra sarebbe normale, rivisto e corretto con una verniciata di slang. L’aggressività, la squadra corta, l’occupazione degli spazi, il pressing, la difesa alta, l’ossessiva ricerca del gol: questo era già 50 anni fa lo spartito di quell’orchestra e di quell’impareggiabile direttore d’orchestra.
Cruijff era tutto: grande solista e grande uomo squadra, capitano e gregario, giocoliere e fachiro. Era il colpo di testa, il tiro da lontano, il doppio passo leggero, l’appoggio illuminante dell’ultimo metro e il lancio millimetrico dei 40 metri. Aveva il tocco di Maradona, aveva la velocità di Pelè, ma rispetto a quei due artisti era anche un atleta. Instancabile, dinamico, senza mai correre a vuoto. Era un’icona del suo tempo, come piaceva a Minà.
Se i toni superlativi trascendono, la colpa è sempre della memoria, che deforma la realtà sulle dolci ali della nostalgia. Ma nessun superlativo sarà mai del tutto infondato, per Johan l’immarcabile: caso mai, solo un po’ amplificato. Purtroppo, il superlativo di adesso ha tutto un altro sapore: è mesto e pietoso. Il mito di allora oggi è malatissimo. Gli accertamenti a Barcellona, sua seconda casa, parlano di cancro ai polmoni. A 68 anni, il mito diventa improvvisamente fragile e smarrito. Già nel ’91, Cruijff si era portato avanti con un intervento al cuore. Incallito fumatore, si era subito iscritto all’albo degli ex e si era prestato a una campagna contro i danni del tabacco. Stavolta però è un’altra cosa. Il campione deve lottare di nuovo, ma su un campo che non gli è familiare, dove pressing e aggressività dovrà subirli da un avversario carogna.
E allora augurissimi Johan. Anche da questi colpi bassi, anche dai percorsi più tortuosi e dalle fessure più strette, torna l’onda lunga delle nostre emozioni lontane. In un’altra stagione della vita c’erano i classici del liceo, c’era la colonna sonora di Lucio Battisti, c’erano i sogni cullati controvento dalla sella di una Vespa, e c’erano i dribbling alla Cruijff sui rugosi campetti di periferia. Tutto è cambiato, il mondo e i nostri destini. Ma non c’è niente, neppure la più bieca delle malattie, che riuscirà mai a cambiare il tuo poster seppiato da numero uno.