Corriere della Sera, 23 ottobre 2015
Jean racconta l’anima candida di suo marito Charles Schulz, il papà di Charlie Brown
«Mio marito si stupiva sempre, quando gli facevano i complimenti. Quello che avete fatto in Italia, per lui, nel 1992, lo emozionò: lui, così riservato, ne parlava spesso. Un’accoglienza da capo di Stato: la visita privata alla Cappella Sistina dove non disse una parola, a bocca aperta e con il naso all’insù come un bambino. Il titolo di Commendatore che lo onorò profondamente, come il fatto che tanti artisti italiani avessero ritratto Snoopy per rendergli omaggio. Gli stilisti che lo salutavano. Fellini che volle conoscerlo. Non gli pareva vero. L’avete reso felice».
Jean Schulz, vedova di Charles M. Schulz (1922-2000), direttrice del museo americano dedicato al papà dei Peanuts, parla del marito come se fosse nella stanza accanto chiamandolo «Sparky», «scintillina», il soprannome che gli restò appiccicato fin da bambino. La signora Jean è a Milano per l’inaugurazione di una mostra che arriva dopo tappe a New York, Stoccolma, Amsterdam e Parigi: «Snoopy & Belle in Fashion», dedicata alla moda di Snoopy (e sua sorella Belle) a Palazzo Cusani da oggi a domenica.
È la nuova veste di una mostra che trent’anni fa vide Versace, Armani, Gucci, Oscar de la Renta, Missoni, Oleg Cassini e la LL Bean creare abiti per il beagle più famoso del mondo. Ora torna con una doppia veste: una nuova collezione di modelli firmati dagli stilisti – tra cui DKNY, Calvin Klein, Dsquared2, Opening Ceremony, Ungaro, Diane Von Furstenberg – accanto a opere della prima mostra come le bambole vestite da Armani e Versace.
A Schulz non bastarono 365 milioni di lettori nel mondo – uno per ogni giorno del calendario – e un patrimonio enorme, l’amore di tante persone comuni e gli elogi dei grandi (Umberto Eco che lo ritiene più grande di J.D. Salinger, Dario Fo che lo considera «uno dei più importanti poeti del nostro tempo»): «Disegno per me stesso, ascolto le voci dei miei personaggi, cerco di capire se quella striscia mi fa ridere, ma non sono mai sicuro: me lo diceva sempre, mio marito, quando andavo nel suo studio e provavo a spiegargli che erano tutte bellissime – racconta la signora Jean —. Era grato ai lettori ma con loro aveva un rapporto complicato: amano me o i miei personaggi?, si domandava. Era un pensiero che poteva venire solo a Charlie Brown. E mio marito non trovò mai la risposta. Nei Peanuts il baseball è fondamentale ma lui preferiva l’hockey: giocava due volte alla settimana anche da vecchio, nell’arena che aveva donato alla città di Santa Rosa (e dove il bar dedicato a Snoopy si chiama Cucciolo caldo, ndr ). Del baseball aveva un ricordo tenerissimo, però: a 14 anni – e lui da piccolo aveva avuto davvero poco: prima la Grande Depressione e poi la guerra – aveva partecipato a un campionato estivo, uno dei suoi ricordi più felici».
Ma Charlie Brown sapeva anche essere ambizioso: «Da bambino disegnava su un tavolino pieghevole tutto traballante perché la casa era piccola – divideva la camera da letto con la nonna: suo padre faceva il barbiere, come quello di Charlie Brown – ma voleva uno spazio tutto suo. A 14 anni però andò a una mostra – abbiamo cercato per anni di ricostruire di quale artista si trattasse, inutilmente – e tornò a casa talmente scoraggiato che buttò via tutti i suoi disegni. Anche negli anni del successo, quella ambizione gli rimase dentro, implacabile: apriva la pagina della domenica per controllare che la sua fosse la striscia più divertente della settimana. Era competitivo: giocava bene a golf, aveva un ottimo handicap, ma invecchiando l’handicap salì e se ne dispiaceva molto. Questo spirito lo aiutò a mantenere alta la qualità del suo lavoro: diceva che dopo 10 anni i fumetti perdono d’interesse, i personaggi si logorano».
Fu esigente con se stesso fino all’ultimo: «In ospedale chiese carta e matita. Disegnò Charlie Brown, e poi Snoopy. Voleva vedere se ne era ancora capace. Ma capì che fisicamente non avrebbe più retto il ritmo della pubblicazione settimanale. Allora scrisse il commiato con i lettori che uscì in calce all’ultima striscia. Morì di notte, mentre le rotative dei giornali stampavano la sua ultima vignetta».
Jean è convinta che la perdita della mamma sia stata il trauma centrale della vita del marito. Della amatissima madre Deena, di origine norvegese (Snoopy si chiama così perché era il nome che lei voleva dare al cagnolino che non ebbe il tempo di regalare a Charles) non parlava, con riservatezza tutta scandinava, neanche da vecchio, neanche alla moglie e ai figli: «Non andava mai ai funerali. E anche se adorava i suoi amici, non riusciva a andare a trovarli in ospedale. Mi sono chiesta spesso se nel mondo di Charlie Brown i genitori sono invisibili perché la mamma del suo creatore non c’era più».