Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2015
Piazza Affari, in continuo aumento il numero delle società quotate: alle 317 attualmente presenti in Borsa se ne dovrebbero aggiungere altre 50 tra 2015 e 2016. «Possibile che inizi anche in Italia a maturare una minima cultura finanziaria, che spinga le imprese a ricapitalizzarsi invece di ricorrere sempre al credito bancario?»
Lo sbarco in Borsa di Poste Italiane e di Ferrari fa notizia, per il blasone e per le dimensioni dei due gruppi, ma non fa statistica. Per il sistema Paese è forse più importante guardare le circa 50 aziende italiane candidate ad entrare a Piazza Affari tra quest’anno e il prossimo (23 delle quali già arrivate sul listino): considerando che in Borsa ci sono 317 società quotate, questo significa che in un paio di anni potenzialmente il numero di aziende quotate potrebbe aumentare del 15%. E questo dopo le 28 sbarcate sul listino nel 2014, che già era il record dal 2007. È vero che si tratta in gran parte di imprese piccole, con capitalizzazioni minuscole: ma nel Paese delle Pmi, è positivo se anche loro iniziano a guardare al mercato azionario dopo decenni di cieco banco-centrismo.
Bisogna però capire se questa voglia di Borsa sia solo legata al buon momento del mercato, oppure se sia più strutturale. La domanda da porsi, insomma, è: possibile che, dopo anni di credit crunch, gli imprenditori italiani stiano iniziando a capire che restare ancorati solo alla banca è rischioso? Possibile che inizi anche in Italia a maturare una minima cultura finanziaria, che spinga le imprese a ricapitalizzarsi invece di ricorrere sempre al credito bancario? Possibile che tra gli imprenditori (anche piccoli) emerga la consapevolezza che, più di un problema di credito, in Italia c’è un problema di capitale? I dati sulle quotazioni in Borsa non rispondono a queste domande. Sul mercato, gli esperti del settore mostrano un certo scetticismo. Di certo servirà tempo per trovare una risposta. Ma una cosa è certa: i dati di Borsa italiana, almeno, lasciano ben sperare.
Il problema dell’Italia è infatti che le imprese dipendono quasi esclusivamente dalle banche per reperire finanziamenti. Per questo le nostre aziende hanno tendenzialmente troppo debito e poco capitale. Per questo hanno un indebitamento a breve o brevissimo termine. Insomma, il banco-centrismo ha prodotto un sistema industriale troppo indebitato, sbilanciato sul breve termine e dunque poco capace di investire sul futuro. Quando, a partire dal 2011, le banche hanno chiuso i cordoni del credito (in Italia sono andati persi circa 100 miliardi di euro di finanziamenti in pochi anni), le imprese sono dunque rimaste strozzate. Con conseguenze economiche e sociali devastanti.
Non solo. Il banco-centrismo ha prodotto anche un altro effetto collaterale: ha sfavorito la nascita di investitori istituzionali e ha indotto quelli che esistono a comprare più BTp (che rendevano tanto con rischi tradizionalmente contenuti) che a ricapitalizzare le imprese attraverso la Borsa. I dati parlano chiaro: i fondi pensione italiani (stima Covip) investono solo il 2,5% del loro patrimonio in azioni o obbligazioni di aziende nazionali, contro il 46.5% medio dei Paesi finanziariamente più avanzati. Idem per le assicurazioni. Il cortocircuito è evidente: i grandi player del mercato non investono in Borsa perché ci sono poche aziende quotate, e le aziende non si quotano perché ci sono pochi investitori.
È dunque necessario che questo circolo vizioso si spezzi. Ora ci sono almeno tre condizioni perché accada. Uno: il credit crunch ha rotto l’incantesimo tra banche e imprese, facendo capire a queste ultime che avere una sola fonte di approvvigionamento non è saggio. Due: i rendimenti ormai bassissimi dei BTp (grazie alla politica della Bce) potrebbero svegliare dal sonno gli investitori e indurli a cercare altri sbocchi per i loro denari. Tre: la legislazione degli ultimi anni sta spingendo le imprese a reperire capitali o finanziamenti (per esempio attraverso i mini-bond) sempre più sul mercato e sempre meno in banca.
E in effetti qualche primo timido risultato si vede. In Borsa innanzitutto. Gli approdi a Piazza Affari (si veda grafico sotto) sono più numerosi di quanto il rialzo del listino giustificherebbe. Per di più in pochi anni l’Aim (il listino creato per accogliere le piccole imprese in Borsa) è cresciuto, fino ad avere le attuali 69 aziende quotate: in passato i precedenti tentativi di creare listini ad hoc per le Pmi (come per esempio Expandi o il Mac) non avevano avuto successo. «Questo – nota Gabriele Matrone, partner di Pwc – potrebbe indicare che anche tra le Pmi sta cambiando l’approccio al mercato». Anche i mini-bond stanno crescendo. Idem per il private equity: rispetto alle 139 acquisizioni di aziende italiane censite da Aifi e PwC nel primo semestre 2014, quest’anno si registra un aumento superiore al 20%.
Certo, è possibile che tutto questo sia passeggero. Certo, i numeri sono piccoli. È vero anche che spesso la quotazione serve più all’imprenditore per intascare soldi che all’impresa per ricapitalizzarsi. Per capire se il trend stia davvero cambiando, bisognerà attendere anni. Ma chi ben comincia, narra la saggezza popolare, è a metà dell’opera...