Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2015
Dopo lo strepitoso battesimo in Borsa della Ferrari, gli investitori americani già si chiedono quali altri fuochi d’artificio abbia in serbo l’industria italiana, che sembra finalmente tornata in stato di grazia. «Quello che conta per i mercati, oggi, non è più solo il livello dello spread o la distanza dei tassi spagnoli da quelli italiani. È soprattutto sulla capacità di ricreare in Italia un tessuto connettivo tra sistema industriale e sistema finanziario e su un dialogo costruttivo tra pubblico e privato che si formerà il giudizio sul "miracolo italiano"»
«What’s next?» significa «che cosa c’è dietro l’angolo». O anche «chi sarà il prossimo?». Sembrerà incredibile, ma l’oggetto di questa domanda che ci è stata rivolta ieri da alcuni investitori americani dopo l’Ipo Ferrari, non era il futuro del gruppo Fiat o la prossima mossa di Marchionne: era un interrogativo sull’Italia. Come all’improvviso, il profilo del Paese delle vacanze, dei sindacati, degli scioperi, del debito troppo alto, della corruzione e di tutti i luoghi comuni con cui ancora spesso l’Italia viene giudicata all’estero, è sembrato migliore nell’immaginario d’Oltreoceano.
A New York e non solo, curiosità e interesse sull’Italia cominciano a sostituire la diffidenza, mentre le opportunità crescono più dei rischi. L’impegno del governo nelle riforme strutturali e nelle privatizzazioni, come le misure a sostegno degli investimenti esteri e di ammodernamento del sistema bancario, sono stati fattori certamente determinanti. E non c’è dubbio che anche il successo di Sergio Marchionne nel turnaround della Fiat e della Chrysler e soprattutto nella quotazione della Ferrari abbiano avuto un ruolo chiave nel migliorare la percezione dell’Italia sui mercati americani ed esteri. Certo, la strada da fare è ancora lunga su temi-chiave come l’efficienza amministrativa e giudiziaria, veri deterrenti agli investimenti esteri. Ma nel complesso sembra soffiare sull’Italia un vento nuovo, certamente più ottimista.
Dopo il fondo toccato tra il 2008 e il 2012, la percezione del mercato italiano sembra la migliore tra i Paesi periferici dell’Eurozona. Sia per i tassi di interesse e lo spread, rientrati in zona sicurezza e ai livelli più bassi tra i concorrenti, sia per le opportunità offerte dalla Borsa, che oltre alle grandi firme del made in Italy sta offrendo al mercato dei capitali nuove matricole industriali e di servizio proprio in una fase di grande volatilità e incertezza dei listini. La privatizzazione delle Poste, per esempio, ha già conquistato il podio come la più grande quotazione dell’anno in Europa. Un’Europa in cui l’Italia sembra brillare (anche più del dovuto) mentre altre luci si offuscano. La Germania è impantanata nello scandalo Volkswagen, la ripresa francese è debole, mentre Belgio e l’Olanda rischiano di perdere lo status di rifugio fiscale sicuro per i capitali e per le società straniere. Il tutto, mentre la Grecia resta in terapia intensiva, la Spagna sotto osservazione per il rischio-elettorale e il Portogallo è senza certezze di governabilità. In questo contesto, non è certamente un caso se tra Milano e Roma ci sia stato negli ultimi mesi un gran via vai di importanti banchieri, dai cinesi agli americani: gli incontri riservati tra Palazzo Chigi e gli investitori stranieri si sono moltiplicati. Nel mirino c’è di tutto, Ilva compresa, ma soprattutto le aziende pubbliche e i loro asset in vendita: i grandi fondi americani, per esempio, hanno avuto più di un meeting con Mauro Moretti per discutere personalmente le cessioni di Finmeccanica.
La domanda «What’s next», insomma, non ha solo un valore retorico o compiacente, ma soprattutto interlocutorio: come si spiega che i dati economici italiani migliorino mentre quelli dei paesi forti dell’Europa siano stagnanti, o che l’export di made in Italy cresca più delle attese mentre quello tedesco è in affanno? Ma soprattutto: l’Italia potrà anche uscire dal tunnel, ma sarà in grado di far nascere altre Ferrari? Quello che conta per i mercati, oggi, non è più solo il livello dello spread o la distanza dei tassi spagnoli da quelli italiani. Contano certamente le riforme, ma è soprattutto sulla capacità di ricreare in Italia un tessuto connettivo tra sistema industriale e sistema finanziario e su un dialogo costruttivo tra pubblico e privato che si formerà il giudizio sul «miracolo italiano». Politiche industriali mirate per settori strategici come le telecomunicazioni, l’auto, i trasporti, l’energia, l’hi-tech o la ricerca sono una necessità non solo per chi opera in questi settori, ma anche per chi valuta dall’estero l’affidabilità italiana nel lungo periodo.
Se l’Italia vuole tornare ad essere simbolo di forza industriale e di creatività imprenditoriale, l’impegno di sistema è irrinunciabile. La Ferrari, la Lamborgini, la Bugatti o anche la Ducati sono nate tra Modena e Bologna non perchè il territorio fosse il mercato più ricco d’Italia, ma perchè quello era il distretto della meccanica agricola, dei motori, dei tornitori, degli ingegneri e delle officine artigiane. Ferrari lo ha scritto a chiare lettere persino nel prospetto informativo della quotazione: solo un terremoto devastante, scioperi selvaggi, una pressione fiscale insostenibile o altri eventi straordinari non prevedibili potrebbero costringere l’azienda a trasferire la produzione in altre aree o addirittura all’estero. «Ma in questo caso – è scritto sul prospetto – il danno che subirebbero l’azienda e il marchio Ferrari potrebbe essere enorme». Nell’epoca della delocalizzazione, insomma, Ferrari ha ricordato a tutti che l’abbandono del piccolo distretto meccanico emiliano potrebbe essere fatale per il futuro dell’azienda e del suo marchio. La speranza, dunque, è che in futuro l’Italia torni a far nascere altre Ferrari: in Emilia come in Veneto, in Lombardia come in Piemonte o persino al Sud.
La risposta alla domanda iniziale, insomma, è come una scommessa sul futuro: sulla capacità di governo nelle riforme e nell’industria, sulla qualità delle amministrazioni territoriali, sulla riqualificazione del sistema educativo e della ricerca. Ma anche dalla collaborazione tra banchieri e imprenditori nel finanziamento di progetti e nuove idee. La domanda di Wall Street, ieri, voleva solo ricordarci proprio questo.