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 2015  ottobre 22 Giovedì calendario

La casa di Carol Rama diventerà un museo, ma «nessuno potrà togliere o spostare neppure uno spillo da quel microcosmo perfetto che costituisce un unicum»

L’opera d’arte dalle pareti nere in cui visse e si rifugiò per quasi un secolo Carol Rama, l’artista scomparsa il 25 settembre scorso, presto sarà un museo. La sua casa-feticcio, l’officina della memoria sarà un bene collettivo: il Museo Carol Rama. L’ha deciso, con un atto che ha avuto a Torino un solo precedente nel 2000 (quando venne vincolato il Circolo degli Artisti con tutti i preziosi mobili e dipinti che racchiude) la Soprintendenza ai Beni Architettonici del Piemonte guidata da Luisa Papotti. In forza dell’articolo 51 del Codice dei Beni Culturali si potrà tutelare quella foresta fossile di opere d’arte e oggetti di vita comune stratificate in una lunga vita di produzione, in quanto «studio d’artista».
Un «unicum»
Contenitore e contenuto dell’appartamento al quinto piano di via Napione 15, affascinante strada che costeggia il Po e s’affaccia sulla collina, in cui si trova anche la residenza Mollino, saranno quindi un bene tutelato. «Nessuno potrà togliere o spostare neppure uno spillo da quel microcosmo perfetto che costituisce un unicum» spiega Luisa Papotti, che ha assunto la decisione in pieno accordo con il Comune.
Un modo per raccogliere l’appello dei tanti estimatori dell’artista con la treccia a mo’ di corona. Come quello lanciato qualche giorno fa dal critico d’arte Marco Vallora sulla Stampa: «Una cosa sola chiediamo, alle autorità, se ancora ci stanno. Che non sprechino parole di generica commemorazione. Ma che di una cosa soltanto si preoccupino, davvero: tutelare la sua casa-feticcio, che è più che chiamare casa-museo. Un luogo di sortilegio incomparabile, un ramificato e palmipede continuum d’immaginario, una proto-installazione regale, di ricchissima arte povera, un unicum insomma, che solo i privilegiati hanno avuto la fortuna di frequentare e che gli stranieri come sempre ci invidiano (speriamo che non ce lo soffino musei più attenti, già in allerta)». Chi conosce bene la realtà di casa Rama sa pure che la situazione non era per niente facile da gestire: l’appartamento non era di sua proprietà, ci sono parecchi parenti, tutori, e pure qualche problema economico.
I suoi oggetti
Con questo atto però è come se si fosse trovato l’unico bandolo possibile di una matassa che ricorda il suo Presagi di Birnam (1970), con le camere d’aria di bicicletta sfrangiate sottilmente e appese su un cavalletto di ferro. Proprio ieri mattina sono partite le raccomandate della Soprintendenza all’indirizzo dei parenti. È stato così ufficialmente lanciato il vincolo. E i discendenti dell’artista dovranno accettare di vedere trasformato questo bene privato in patrimonio da condividere. «Sarà vietato a chiunque modificare la destinazione d’uso della casa – conclude Luisa Papotti – e rimuoverne il contenuto. È come una preziosa conchiglia che raccoglie una perla». Basti pensare al fornelletto a gas da campeggio – la sua massima attrezzatura da cucina – su cui stava attaccato da una vita un foglietto autografo di Warhol. La collezione di scarpe capricciose e irripetibili e poi le foto con Liza Minnelli, Meret Oppenheim, i regali di Duchamp e il porta-pennelli che appartenne a Picasso.
Tutto in quella casa – come si capisce sfogliando il meraviglioso volume Il magazzino dell’anima (Skira) dedicato alla casa di Olga Carolina Rama da Cristina Mundici e dal fotografo Bepi Ghiotti – è parte stessa del genio di quell’artista. E per una volta si pensa anche all’incubatrice, al contenitore, considerandolo tutt’uno con le opere d’arte.