Corriere della Sera, 22 ottobre 2015
La strana storia della forchetta. Usata sin dai tempi di Mosè, bollata dai vescovi come simbolo del demonio nell’Anno Mille, costò cara al Veronese e al El Greco che osarono dipingerla. Ecco perché è rarissimo trovare questa posata nella storia dell’arte
Nell’Ultima cena conservata alla Pinacoteca nazionale di Bologna e ora in mostra a Treviso, El Greco depose sulla tovaglia tre forchette a due rebbi con il manico finemente cesellato. L’opera, databile al periodo giovanile del pittore cretese, tra il 1568 e il 1570, è contemporanea alla «Cena» di Veronese conservata all’Accademia di Venezia, dove, con la forchetta a due rebbi, un commensale maleducato si pulisce i denti.
Veronese consegnò il dipinto il 20 aprile del 1573, ma il 18 luglio fu convocato dal tribunale dell’Inquisizione. L’accusa, sostenuta dall’inquisitore, frate Aurelio Schellino, era grave: interpretazione poco rispettosa del racconto evangelico. Tra le colpe imputate al pittore, anche quella di aver inserito nel sacro convivio una forchetta. Gli fu ordinato di correggere il quadro entro tre mesi, a proprie spese. Veronese se la cavò cambiando il titolo e trasformando l’ Ultima cena in una Cena in casa di Levi. Ma le forchette, in pittura, non si videro più. Nella realtà esistevano in tutto il Mediterraneo già ai tempi di Mosè, ma erano usate solo dai sacerdoti per la carne dei sacrifici. Quella degli Ebrei aveva tre rebbi. Il forchettone dei Greci, e così anche quello dei Romani, arrivava ad avere fino a dieci rebbi, disposti a cerchio.
La forchetta da tavola comparve a Bisanzio intorno al Mille. A Venezia, nel 955, la principessa greca Argillo la usò al pranzo di nozze con il figlio del doge. Ma i veneziani continuarono a mangiare con le mani per altri cento anni. Finché arrivò un’altra principessa bizantina, Teodora Ducas, per sposare il doge Domenico Selvo. E al banchetto si ripeté la stessa scena. Questa volta descritta da un testimone d’eccezione, il monaco Pier Damiani, poi santificato. Nella sua Opera. De institutione monialis raccontò che Teodora «non toccava le pietanze con le mani ma si faceva tagliare il cibo in piccolissimi pezzi dagli eunuchi. Poi li assaggiava appena, portandoli alla bocca con forchette d’oro a due rebbi».
Il cardinale giudicò la forchetta foriera d’ogni male, strumento di mollezza e perversione diabolica. Quando la povera principessa morì, ancor giovane e con le carni divorate dalla cancrena, Damiani interpretò questa morte come la giusta punizione divina per aver usato la forchetta. Forse anche per questo si dovette arrivare agli inizi dell’Ottocento perché la posata entrasse nell’uso comune.
Nei secoli precedenti apparve sporadicamente sulla mensa degli aristocratici. La sua presenza nei quadri di Veronese e di El Greco resta una rarità nella storia dell’arte. E non è un caso che l’uno fosse veneziano e l’altro di origine greca. Ma a cosa era dovuto l’ostracismo da parte del clero?
La forchetta era arrivata dal mondo bizantino nel momento in cui la Chiesa ortodossa si separava da quella di Roma (1054). I vescovi, associando la forchetta allo scisma, la bollarono come simbolo del demonio. Il musicista Claudio Monteverdi, nato a Cremona nel 1567 e morto a Venezia nel 1643, ogni volta che era costretto per buona educazione a usarla, faceva poi dire tre messe per espiare il peccato. Perciò fu vietatissima nei conventi.
L’unico che ebbe il coraggio di raffigurarla sulla tavola dei frati fu il Sodoma, nel 1505. La dipinse nell’affresco San Benedetto a tavola con i suoi monaci, eseguito per l’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, in provincia di Siena: una forchetta a tre rebbi, uno dei quali più lungo e un po’ storto, per prendere dal piatto comune quelle che sembrano foglie di cavolo nero.