la Repubblica, 22 ottobre 2015
"Ritorno al futuro" visto da Bartezzaghi. Tra previsioni azzeccate, gag e festeggiamenti
Quella di ieri non è stata una sola giornata. Di ieri ne abbiamo avuti due. È trascorso il 21 ottobre del 2015 che ognuno di noi, chi più chi meno, ha vissuto. E poi è trascorso il 21 ottobre parallelo, quello immaginato da Robert Zemeckis e vissuto da Marty e Doc, Michael J. Fox e Christopher Lloyd, nella seconda puntata della saga di Ritorno al futuro. Saga che era cominciata con la prima puntata, l’unica che sia stato un vero culto di massa, proprio 30 anni fa in questi giorni.
Lo avevamo già provato ad annate, nell’orwelliano 1984 e nel kubrickiano 2001. Ma concentrata in un giorno questa specie di singolare festività (non si può certo chiamarla anniversario, né ricorrenza) ha fatto ancora più effetto: il nostro tempo ha raggiunto quello di una narrazione. Quando succede con uno dei giorni in cui qualche Nostradamus aveva preconizzato sismi, asteroidi e apocalissi assortite, passa un brivido di panico. Qui invece è stata festa, si è fatto il conto delle cose inventate e delle cose non inventate: l’auto volante, no; il lettore di impronte digitali, sì; lo skateboard volante, quasi; in più abbiamo Internet, che non era stato previsto. Le trovate più inaspettate del Back to the Future Day sono stati i divertiti comunicati di polizie di tutto il mondo, dal Galles all’Australia a Taiwan. Hanno annunciato arresti dei protagonisti per «turbamento del continuum spazio-temporale»; tentativi di calcolare con l’autovelox la velocità della DeLorean (la leggendaria automobile su cui i personaggi passeggiavano avanti e indietro per la storia americana); rilievi scientifici sulle strisce infuocate lasciate dall’auto stessa in attesa che «il flusso canalizzatore si attivi».
E se hanno voglia di scherzare i poliziotti, figurarsi noialtri.
Articoli e siti Internet di tutti i tipi hanno ricordato la fatica che fece Robert Zemeckis a realizzare il film, i molti rifiuti ricevuti e il provvidenziale intervento di quel genio della lungimiranza produttiva che è Steven Spielberg. Come è possibile che un film che di pretese non ne aveva poi troppe – sicuramente meno di The Rocky Horror Picture Show o di Star Wars – abbia suscitato un culto tanto unanime e caloroso?
Una chiave può essere trovata nel famoso dialogo in cui il ragazzo Marty si trova proiettato al 15 ottobre 1955, trent’anni prima del giorno che stava vivendo, e va a trovare l’amico inventore Doc, dove stenta a convincerlo di essere arrivato dal futuro su un mezzo inventato dal Doc di trent’anni dopo. L’eccentrico e solitario Doc gli chiede chi sia il presidente, negli Stati Uniti del 1985 e alla risposta «Ronald Reagan!» decide definitivamente che Marty lo stia prendendo in giro: «Ronald Reagan, l’attore? E chi è il vice-presidente, Jerry Lewis? Immagino che Marilyn Monroe sia la First Lady, e John Wayne ministro della Guerra!». Viaggi in un passato non remoto, e poi in un futuro a portata di mano: non ci si trovano gli Alieni, ma le premesse e le conseguenze della nostra stessa vita. Una cosa affettuosa, insomma.
Ancora oggi, quando sono passati altri trent’anni, rivediamo quella scena almeno con un sorriso. La studiosa Elisa Cuter, sulla rivista web Doppiozero, al proposito ieri parlava di una sorta di «infanzia pop della nostra modernità, quello che potremmo chiamare il volto ingenuo e benevolo della postmodernità». Era l’epoca, infatti, in cui i prodotti dell’industria culturale hanno incominciato a giocare con la memoria del pop, di cui il pubblico era ormai competente quanto gli addetti al settore: strizzate d’occhio, citazioni buffe, cameo. Marty che insegna il rock ‘n’ roll a Chuck Berry agli italiani ricordò Benigni e Troisi che, solo l’anno, prima avevano fatto inventare il treno a Leonardo da Vinci (oltre che impartito Yesterday e l’Inno di Mameli ad Amanda Sandrelli). Solo che dove noi abbiamo il Rinascimento il Nord-America bianco ha il pop, e se da noi c’era voluto Umberto Eco per rendere pop il Medioevo, il Medioevo americano era pop già dai tempi di Tom Mix: è il Far West dove, nell’ultimo capitolo della trilogia, Marty agirà sotto il sonoro nickname di “Clint Eastwood”.
Nel postmoderno i prodotti storici dell’industria culturale sono continuamente richiamati in scena, si torce loro il naso, li si strapazza un po’, per ilare affezione. Ecco allora che nel vero 1985 in cui siamo andati al cinemaa vedere Ritorno a futuro, il futuro del nostro passato si manifestava nelle vesti di un ragazzino un po’ problematico ma intraprendente e di un vecchio inventore probabilmente tanto pazzo quanto geniale. Era il sogno di poter vivere la propria stessa identità in modo ironico, avventuroso e soprattutto continuamente cangiante. Un sogno d’amore, per il proprio tempo: il proprio oggi e il resto del tempo che abbiamo avuto e avremo. A noi che rivedremo appena possibile, per l’ennesima volta, il film resta il dubbio: quale dei due 21 ottobre avremmo preferito vivere?
Un cult che il regista Robert Zemeckis faticò a realizzare. Fino all’aiuto di Steven Spielberg