La Stampa, 21 ottobre 2015
La Stampa dedica due pagine al problema dei giovani che si ubriacano. Ecco una scelta dei passi più importanti
Alcol e adolescenti, quello che non sappiamo (Add editore) un reportage giornalistico tra storie di vita e pareri di esperti. Il libro nasce dall’esigenza di indagare l’allarme mediatico sul consumo di alcol tra i minori ma si muove nella certezza che il clamore e i divieti non risolvono un problema che c’è ed è reale.
I binge drinkers
Secondo i dati Espad (indagine europea che coinvolge circa 40 Paesi europei), in Italia due milioni di studenti negli ultimi 12 mesi hanno bevuto almeno una volta alcol, il 55% di loro lo ha fatto meno di dieci volte, quasi 400.000 (il 20%) una volta al mese, per circa 500.000 il consumo è stato più assiduo (fino a 20 volte o più durante l’anno). Se guardiamo i numeri, dice Sabrina Molinaro del Cnr, non ci sono impennate, ma aggiunge Beccaria che «il consumo è sfacciato e visibile anche se la legge vieta la vendita ai minori», regola violata giorno e notte altrimenti non staremmo qui a discuterne. Soprattutto aumenta la quantità di «binge drinkers», ragazzi che bevono solo ogni tanto, ma quella volta bevono più di sei bicchieri.
L’unica raccomandazione possibile per i minori è: ZERO ALCOL. Nel corpo ancora in crescita manca, o funziona a bassissimo regime, l’enzima che serve a metabolizzare l’alcol, questo vuol dire danni per fegato e apparato digerente, mentre il cervello è impegnato in una crescita delicata su cui è saggio non interferire. Per le ragazze, poi, il rischio è maggiorato da una ridotta capacità di smaltimento e dall’interferenza con i recettori degli estrogeni. L’alcol è di sicuro la sostanza psicoattiva più dannosa, accessibile, economica e allo stesso la più diffusa nella nostra società essendo legale. Prima di puntare il dito contro i ragazzi, è bene accendere una luce sopra di noi. E ascoltare quello che hanno da dirci, valorizzando le loro esperienze. La storia di Jacopo, un ragazzo astemio, ad esempio, è fantastica e la sua capacità di dare valore a ciò che per il gruppo è un disvalore («non farsi») è notevole. In Europa, e in particolare nella superalcolica Finlandia, stanno crescendo quelli che come lui non toccano alcol. Forse è il desiderio di distinguersi dalla massa? Bello! Perché non dare valore e visibilità a questi fenomeni? I ragazzi non sono tutti uguali e però li sintetizziamo tutti in un unico titolo, come se fossero una categoria sola. Presi come siamo dalle percentuali di chi ha comportamenti a rischio, ci dimentichiamo di guardare l’altra faccia della medaglia, tipo quel 44% che nell’ultimo mese non ha bevuto, o chi si tiene entro la misura di una birra al mese (Alessandra Di Pietro)
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S’inizia a bere abitualmente a 11 anni, si diventa alcolisti a 25 anni. Sono i dati allarmanti che arrivano dall’Acat di Torino, che abbassa la soglia della «prima volta» già in quinta elementare, delineando un quadro di abuso alcolico sempre più giovane. Sono i maschi a presentare più comportamenti a rischio, ma è in crescita anche il fenomeno femminile: nel 2011 le consumatrici piemontesi di alcolici fuori pasto erano il 18%: oggi i cinque «club alcologici» torinesi – i gruppi di supporto – sono frequentati al 30% da donne.
«S’inizia con vino e birra, ma il passaggio ai superalcolici è sempre più veloce. Se si è registrato un calo dei consumi, in realtà si è solo diversificato a favore delle alte gradazioni», rivela Ivana De Micheli, presidente dell’Associazione dei Club Alcologici Territoriali Torino Centro. Per lo sballo «vengono scelti la vodka, che non lascia odore e dà effetti immediati, e i mix di cocktail, i più amati dai giovani che escono in gruppo». «In Piemonte seguiamo 21 mila persone, di cui più di 7 mila sono alcolisti: numeri in aumento». Le dipendenze sul territorio costano alla Regione Piemonte 31 milioni» (dato fornito dall’assessore Saitta) (Noemi Penna).
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Il professor Matteo Lancini è psicologo e psicoterapeuta specializzato in età evolutiva e insegna all’Università di Milano.
Così giovani e già con la bottiglia in mano. Professore, perché lo fanno?
«Non più per trasgressione, sperimentazione o ancora per opposizione all’autorità paterna, tutte cose che appartenevano ad altre generazioni; oggi lo fanno in funzione anestetica o prestativa, cioè per anestetizzare la tristezza o migliorare una prestazione, che di solito consiste nell’apparire allegri e scatenati nella società dell’immagine e dei social in cui sono immersi».
I genitori, in che cosa sbagliano?
«In realtà non sono così potenti… mai come in questo momento hanno competitor più grandi di loro: il marketing innanzitutto, che si rivolge direttamente ai giovani come non ha mai fatto prima; poi i modelli televisivi, a cui sono abituati fin da piccolissimi 24 ore al giorno sui canali tematici; infine il modello orientativo dei coetanei, forse uno dei più forti. I ragazzi di queste nuove generazioni diventano frequentatori di coetanei fin dall’asilo nido, e a 7-8 anni hanno incontrato il numero di bambini che i genitori forse hanno conosciuto a 20. Tutti questi soggetti – marketing, tivù, coetanei, internet – non hanno intenti educativi ma influenzano moltissimo».
I genitori quindi non sono più decisivi né nel male né nel bene?
«Al contrario, i genitori sono ancora modelli di identificazione fondamentale per i figli e devono fare il massimo sforzo per essere adulti autorevoli che presentano loro il futuro e le risorse necessarie per affrontarlo e costruirlo; devono offrire una relazione di speranza».
Perché è così importante non mostrarsi «angosciati»?
«Perché altrimenti i ragazzi non raccontano; e non perché abbiano paura della punizione, che non spaventa più nessuno, ma perché hanno paura di ferirci, soprattutto le mamme. Non sa quanti adolescenti ci vengono a chiedere di prendere in carico i loro genitori…».