il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2015
Intervista a Mary Mapes, la giornalista che rivelò in tv le torture di Abu Grahib e il modo in cui il giovane George W. Bush riuscì a schivare il Vietnam, e che per questo da 11 anni non può più esercitare la sua professione. Adesso la sua storia è diventata un film
“Essere un reporter è il miglior lavoro al mondo, l’unico in cui la richiesta principale è dire la verità”. Da undici anni, però, Mary Mapes non può più fare la reporter. Anche se con le sue inchieste ha fatto vacillare la presidenza di George W. Bush, nel 2004. Ha raccontato la sua storia in un libro, Truth and Duty (la verità e il dovere), ora diventa un film, Truth di James Vanderbilt. Sullo schermo, a interpretare Mary c’è Cate Blanchett. Eppure è una fama ben triste: dieci anni fa, Mary Mapes è stata licenziata dal network in cui lavorava, la Cbs, nel programma 60 minutes. Il suo capo, uno degli anchorman più famosi d’America, Dan Rather, costretto a scusarsi in diretta. Si è dimesso e ha ricominciato la carriera in una tv locale. Bionda, non dimostra i suoi 59 anni, Mary Mapes la incontriamo a Roma, davanti a un espresso.
Mary Mapes, il 27 aprile 2004 il tuo servizio nel programma 60 minutes rivela le immagini delle torture in Iraq. Cos’è successo dopo?
L’Amministrazione Bush si è infuriata. La Cbs aveva rinviato la storia per tre settimane, perché il Pentagono diceva che l’inchiesta sarebbe stata dannosa per i nostri soldati. Dopo la trasmissione, i vertici militari hanno cercato di far passare l’idea che si trattasse di pochi soldati che hanno fatto cose sbagliate. Ma da dove derivava la loro certezza di impunità? Abbiamo capito che il governo americano non si limitava a tollerare la tortura, ma la incoraggiava.
Come sei entrata in contatto con la storia di Abu Ghraib?
Avevo una fonte che ha raccontato al mio team di un processo alla Corte marziale in Iraq che riguardava dieci soldati americani, per qualcosa di terribile che avevano fatto in Iraq ai prigionieri. Mi dissero che esistevano delle fotografie. Abbiamo cercato base per base, unità per unità. Ho trovato lo zio di uno degli uomini sottoposti alla Corte marziale: ‘Mio nipote viene punito, ma ha fatto soltanto quello che era stato ordinato’. Bingo. Abbiamo convinto il soldato a chiamare suo zio che ha inoltrato la chiamata da Baghdad a Dan Rather, che ha registrato la chiamata. Poi sono riuscita a ottenere le fotografie.
Pochi mesi dopo, esce la tua inchiesta sul servizio militare di George W. Bush. In base a testimonianze e documenti riservati si capisce come è riuscito a sottrarsi al rischio di finire in Vietnam. La Cbs però dovrà ammettere di non essere in grado di provare che i “Killian documents” fossero veri. Pensi fosse una trappola? Una vendetta della Casa Bianca?
La Casa Bianca non voleva assolutamente che si parlasse della questione del Vietnam. Non mi sembra sensato pensare che mi abbiano fatto arrivare documenti con i quali sarebbe comunque ripartita la discussione. Fosse stata un’operazione di Karl Rove, il consigliere di Bush, avrebbero lasciato qualche prova per dimostrare che erano falsi. E ci avrebbero distrutto. Invece erano fotocopie, nessuno ha potuto provare che fossero veri ma neppure fasulli.
I documenti del tenente colonnello Jerry Killian sembravano la prova definitiva che Bush aveva ricevuto un trattamento di favore, per evitare che dalla Air National Guard del Texas rischiasse di finire in Vietnam. Ma blogger e giornali conservatori sostengono che sono stati scritti con Microsoft Word, e non battuti a macchina nel 1968.
Per me il punto non è mai stato la battaglia sui caratteri dei documenti, gli spazi tra le lettere, la differenza dei caratteri tra la macchina per scrivere e Word. Il punto erano le informazioni contenute: non abbiamo mai trovato errori sostanziali, su nomi, qualifiche, indirizzi, dati. Io avevo tre cose nuove con cui andare in onda, di una di queste non avevamo la certezza assoluta, cioè il dossier Killian. Però c’era anche la prima intervista all’uomo, Ben Barnes, che aiutò Bush a nascondersi nella Guardia Nazionale. Ricevette una telefonata di un amico della famiglia Bush per aiutare George W., che non stava studiando, non era stato ammesso all’università, e quindi rischiava di finire in Vietnam. Poi avevo un’intervista con il colonnello Robert Strong, che era nella Guardia nazionale al’epoca, e ci raccontava di come le famiglie ricche riuscivano a far evitare ai loro figli il Vietnam, dove quindi andavano a morire soprattutto i ragazzi più poveri. Nel 2004 era importante discutere il passato di Bush in un momento in cui, da presidente, mandava migliaia di ragazzi americani a combattere in Iraq.
La reazione sul web è stata violenta. C’era una regia?
Dopo appena un’ora dalla messa in onda, c’era già un primo post che contestava i documenti per il font dei caratteri, per il taglio della “t” o gli spazi tra le lettere. Io credo ci sia stata una solida cooperazione tra la Casa Bianca e questi blogger di destra. Poi mi sono trovata persone fuori da casa mia, a Dallas, che mi seguivano in auto, che cercavano di scattare foto attraverso le mie finestre, rovistavano nella spazzatura.
Che successe alla Cbs?
Viene nominato un panel “indipendente” per indagare sul nostro lavoro. A guidarlo Dick Thorburgh, il presidente, era un alleato del padre di George W.: è stato il funzionario legale di più alto livello negli Stati Uniti, l’Attorney General, servendo sotto George H. Bush. Il consigliere politico di Thorburgh era Karl Rove, cioè il braccio destro di George W. alla Casa Bianca. Louis Boccardi ha lavorato a stretto contatto con il presidente Reagan e Bush padre. Di recente ha detto che George H. Bush “è l’uomo migliore che ho mai conosciuto”. E gli altri membri erano avvocati d’affari che non sapevano nulla di giornalismo investigativo. Ai miei colleghi i membri del panel chiedevano ‘Mary Mapes è una liberal? È una spia?’. Sarebbe stato incredibilmente divertente se non fosse stato tutto così serio.
La Cbs aveva paura della Casa Bianca?
La Cbs ha bisogno dell’approvazione del governo per molti accordi commerciali, per acquisire radio e tv. In quel periodo la Cbs si stava espandendo e aveva bisogno del sostegno della Casa Bianca e del Congresso, allora dominato dai Repubblicani.
Dopo essere stata licenziata, come ha passato gli ultimi undici anni?
Non ho mai più potuto fare la giornalista. Ho scritto un libro sulla mia storia, che ora è diventato un film. Quando sono andata in tour a presentarlo, mio marito ha preso una breve aspettativa dal giornale conservatore in cui lavorava. Al ritorno il suo posto era stato cancellato, per colpa mia. Ho scritto discorsi, ho lavorato in politica, ho fatto progetti video per business, politici e altro. Vivo ancora in Texas, a Dallas, la stessa città in cui abita George W. Bush.
Il rapporto tra media e potere è cambiato con l’Amministrazione Obama?
C’è sempre una relazione complessa tra giornalismo e potere. Ma gli uomini di Bush avevano lo stesso approccio dei tempi di Nixon, consideravano la stampa un nemico.
Con il film stanno tornando le polemiche?
Le stesse persone che all’epoca mi hanno attaccato sono tornate. Bush e il Partito Repubblicano chiamavano “bugiardi” i loro nemici. Ora sappiamo che erano loro a mentire: le informazioni che l’Amministrazione fornì al popolo americano sull’Iraq erano false. Le armi di distruzione di massa, il coinvolgimento di Saddam nell’undici settembre. Tutte stronzate.