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 2015  ottobre 20 Martedì calendario

Alibaba, la campagna d’Europa comincia dall’Italia. Il gigante cinese del commercio elettronico (quotato 21,8 miliardi di dollari al debutto in Borsa) vuole espandersi in Occidente, iniziando proprio dal nostro Paese. La guida del gruppo, Michael Evans: «350 milioni di cinesi sono potenziali consumatori del made in Italy»

«Perché l’Italia e perché l’Europa? Noi lavoriamo con le piccole imprese e l’Italia possiede decine di migliaia di Pmi con prodotti di alta qualità. In Cina la nostra classe media è cresciuta a 350 milioni di persone che sono tutti potenziali consumatori del made in Italy. Ecco perché». Michael Evans parla lentamente, scandisce le parole perché la Cina e i cinesi li conosce bene. Nel continente rosso ha lavorato nove anni prima in Goldman Sachs poi nel board di Alibaba come amministratore indipendente. Nominato in agosto president del gruppo. È lui l’uomo scelto direttamente dal miliardario Jack Ma per guidare la campagna Europea e l’internazionalizzazione del gigante di e-commerce cinese. La missione è chiara: portare aziende, marche e prodotti sul mercato cinese attraverso l’infrastruttura tecnologica e logistica di Alibaba. Anche la roadmap è definita: entro la fine dell’anno, ha raccontato al Sole 24 Ore, gli uffici commerciali saranno aperti in Italia, Francia e Germania. La prima a essere operativa sarà proprio l’”ambasciata” italiana. «Lo ha deciso Jack – ha tenuto a sottolineare il manager canadese di Alibaba – dopo l’incontro con il vostro presidente del consiglio Matteo Renzi».
Per ora però non è stato stabilito quante persone ci lavoreranno. «Abbiamo appena individuato la figura del country manager, insieme a lui decideremo entità del personale». Tuttavia, non esclude acquisizioni di startup: «Perché no? – sorride il canadese, ex medaglia d’oro di canottaggio nel 1984 -. Non siamo un fondo di private equity ma sappiamo che in ogni paese occorre adottare una strategia di crescita differente». E resta abbottonato sulla scelta dei partner, limitandosi a ricordare che quando pensano all’Italia pensano a cibo, moda e vino. Un classico quindi. Ma l’approccio è tutt’altro che turistico. Quella di puntare su mercati esteri è diventata una necessità dettata anche dai mercati finanziari. Dopo la quotazione di settembre, che l’ha consegnato alle cronache finanziarie come l’Ipo più ricca con una raccolta di 21,8 miliardi di dollari, il titolo oggi viaggia intorno ai 70 dollari dopo aver toccato alla fine dell’anno scorso un picco di 119 dollari. Nell’ultimo trimestre il suo fatturato trimestrale è cresciuto del 28% anno su anno a 3,3 miliardi di dollari, e gli utili sono aumentati del 23%. Tuttavia, gli investitori sembrano ancora delusi. E incerti sull’impatto del rallentamento della crescita cinese sui conti del gruppo. «In realtà io non sono affatto spaventato – afferma Evans -. I cinesi sono storicamente grandi risparmiatori. Ma solo ora cominciano davvero a spendere. Quello che definite rallentamento in realtà è un mix tra investimenti di Stato che sono diminuiti e la domanda che invece rimane stabile».
Paradossalmente, la Cina, per quanto immensa, ad Alibaba non basta più. Secondo il presidente la spesa del commercio online interna ha quasi raggiunto quella americana. Otto pacchi su dieci passano dalla loro infrastruttura. Ma per muovere i numeri di bilancio servono ora nuovi clienti fuori dai confini nazionali. Clienti e non prodotti perché quello di Alibaba è un gigante strano. Nella pancia ha un po’ di tutto: e-commerce, cloud computing, motore di ricerca, telefonia. Ma il suo asset principale è il modello di business legato al commercio. In questo senso Alibaba non è una società tradizionale di eCommerce. Il portale Taobao mette in comunicazione direttamente i consumatori tra di loro. È?un marketplace, concettualmente è un vetrina, un bazar digitale simile a eBay. Ospita sul suo portale le aziende e guadagna dalla transazioni trattenendo una commissione dal compratore. A differenza di Amazon non possiede prodotti e non gestisce i magazzini e centri di distribuzione.
Sotto il profilo finanziario il suo modello la rende più redditizia. Amazon deve fare investimenti massicci in infrastrutture, nella gestione del personale e opera su un margine di profitto più sottile. Alibaba ha un modello più leggero ma un controllo sulla qualità del prodotto inferiore. Il gruppo cinese garantisce la qualità dei produttori e distributori assegnando il titolo di “Gold Supplier”. Nel febbraio del 2011 scoppiò uno scandalo in cui Alibaba ammise di aver consegnato tale titolo di garanzia a 2.236 fornitori che finirono per truffare la propria clientela. La scandalo produsse dimissioni, ma mise in luce come l’attività di Alibaba si basasse sulla fiducia degli acquirenti nei fornitori, e sulla fiducia dei fornitori sul valore delle garanzie da loro acquistate.
Il suo vero asset è, però, legato alla debolezza e inefficienza della rete logistica cinese. Due anni fa ha organizzato Cainiao, un consorzio che gestisce una piattaforma digitale che collega 1.800 centri di distribuzione. La promessa di Evans è di riuscire a consegnare prodotti in Cina in soli due giorni. Non solo nelle grandi città ma anche nei centri rurali dove sta crescendo la nuova classe media in soli due giorni. «Trasportare un pacchetto in Cina è costoso e non ha tempi certi. Immaginate di voler consegnare formaggi o comunque beni alimentari. Ci sono norme e regole diverse. La privacy per noi non rappresenta un problema siamo pronti a seguire le indicazioni dell’Europa. Ogni giorno consegniamo 30 milioni di pacchetti, l’80 per cento dei quali all’interno della Cina. Come dire, in Cina giochiamo in casa».

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Quando ha debuttato in Borsa è stato chiaro a tutti che l’e-commerce non era un mestiere per piccoli. Ad Alibaba è bastato affacciarsi a New York per raggiungere in un solo giorno una valutazione di 21,8 miliardi di dollari. Più di Amazon e eBay messi insieme. In quei giorni a Wall Street si è immediatamente parlato a bassa voce di bolla finanziaria. Un po’ per invidia e spirito patriottico. Poi perché gli investitori americani a un gigante strano come quello fondato da Jack Ma non erano abituati. E forse non si abitueranno mai. Il titolo continua a viaggiare ben al di sotto dei picchi iniziali. L’ultimo trimestre poi ha registrato la sua più lenta crescita dei ricavi degli ultimi tre anni. Il fondatore Jack Ma ha più volte ricordato di non guardare l’andamento del titolo. Ma in estate ha provato a dare una scossa annunciando che utilizzerà parte delle sue risorse per partecipare al piano biennale di buy-back da 4 miliardi di dollari approvato dalla società. Il punto è che Alibaba è molte cose insieme. Forse troppe.
Ha un motore di ricerca come Google, offre servizi di cloud computing come Microsoft, ha un sistema di pagamento come quello di Paypal, un modello di business che si avvicina a quello di eBay e una infrastruttura logistica che ha poco da invidiare ad Amazon.
A differenza di Jeff Bezos, il miliardario cinese non ha investito in magazzini e prodotti. Proprio per questo la sua redditività è più alta. Anche da fuori, se ci fermiamo all’homepage, ha poco a che vedere con gli attori di commercio elettronico. Più che un sito pare un bazar digitale, una vetrina di siti. Sotto questo profilo sono più assimilabili a un big come eBay che non a un genio della logistica come Amazon. Non a caso si definiscono un marketplace, un luogo per far incontrare domanda e offerta, un ponte per le imprese occidentali che vogliono fare business in Cina. In questo senso dimostrano di aver imparato davvero cosa è internet e come funziona la globalizzazione digitale. Hanno compreso l’importanza della privacy e della gestione dati. Su questo tema assai spinoso, visto l’interesse delle istituzioni europee, si dichiarano fin da subito disposti a collaborare con le singole autorità fiduciosi che nei prossimi dieci anni un soluzione a livello globale toglierà dall’agenda dei paesi industrializzati i timori legati al trattamento delle informazioni sensibili.
E hanno ben chiaro che senza un piattaforma di pagamento disegnata sulle esigenze dei consumatori non si va da nessuno parte. Alipay è più di una versione cinese di Paypal. Il sistema di pagamento ha stretto accordi con più di 65 istituzioni finanziarie, incluse Visa, MasterCard e tutti gli istituti di credito della Cina. In pratica, funziona come una garanzia. Permette agli acquirenti online di verificare i prodotti prima di pagare i venditori. Il che è rassicurante sopratutto in un Paese come la Cina dove le leggi per la tutela del consumatore non sono ancora mature.
Alibaba è infatti il più locale dei giganti globali. Perché in fondo Jack Ma, per quanto visionario, resta un imprenditore cinese con i piedi ben piantati nel suo Paese.
Guai però a darlo troppo per scontato. Nei giorni scorsi, spiazzando tutti, ha offerto 3,6 miliardi di dollari per mettere le mani su una sorta di YouTube cinese. Qualche mese fa la decisione di entrare nel mercato delle tv a pagamento con Tbo, una sorta di Hbo asiatico. La versione beta presentata a settembre rivela l’offerta sia di contenuti comprati che di film autoprodotti. L’intenzione dei cinesi sembra quella di guardare con più convinzione al settore dei media e dell’intrattenimento digitale. E magari allargarsi a servizi digitali ad alto valore aggiunto, sulla scia dei giganti di Internet. C’è chi ha subito ritirato fuori il paragone con il servizio video di Amazon. Chi invece ha tirato in ballo Netflix, l’emergente dei film in streaming che debutterà a giorni anche in Italia. Ma i paragoni sono fuorvianti. Alibaba è ancora una volta troppe cose insieme per essere ridotto a un clone di qualcosa che proviene dall’occidente. Per unire i puntini occorre abbracciare e conoscere più a fondo la cultura cinese. L’unica certezza sono le dimensioni. Tra dieci anni, ha dichiarato fondatore, vogliamo essere più grandi di Wal-Mart. Il 2025 non è poi così lontano.