ItaliaOggi, 20 ottobre 2015
In un libro le vicende politiche e intellettuali di Paz e Vargas Loosa e Borges: «Nessun politico può essere una persona onesta. Un politico sta cercando degli elettori e dice quel che gli elettori s’aspettano che dica. La professione dei politici è mentire»
In un libro di parecchi anni fa, Il manuale del perfetto idiota latinoamericano, Bietti 1997, gli autori (tra cui l’editorialista del Washington Post e saggista Alvaro Vargas Llosa, figlio del Premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa) forniscono un bell’esempio d’idiozia latinoamericana da esportazione evocando la bizzarra metafora di quel «famoso saggista statunitense che una volta scrisse che Cuba, la Cuba di Fídel, era come un grande fallo sul punto di penetrare nella vulva nordamericana». Statalisti, in estasi davanti a chiunque racconti loro la favola dei piani quinquennali, devoti al marx-leninismo i laici, votati alla teología de liberación (e al marx-leninismo) i cattolici e i prelati di sinistra, gl’intelligent latinoamericani, gli artisti, gli scrittori, hanno tifato sempre per i tiranni populisti. Quando non erano di sinistra, allora tifavano a colpo sicuro per i generali fascisti, per i peronisti di destra contro i peronisti di sinistra, sostituendo gli «ola» per el Che Guevara contro los gringos con gli urrà per il generale Pinochet contro Salvador Allende. Tutti erano per la guerriglia, per i Tupamaros, per Sendero Luminoso e per i Montoneros, per i Sandinisti, ma anche per gli squadroni della morte argentini, cileni, boliviani. Anche i perfetti idioti latinoamericani nati in Italia se ne andavano in giro inneggiando al pueblo unido e alla revolución o muerte come nei western spaghetti degli anni sessanta. Ci sono, però, alcune eccezioni. Tre in particolare: Jorge Luis Borges, Octavio Paz e il già citato Mario Vargas Llosa.
Letteratura e libertà. Borges, Paz e Vargas Llosas (a cura di Ángel Soto, prefazione di Carlos Alberto Montaner, IBL Libri 2015, pp 110, 8,00 euro, ebook 2,99 euro) racconta la vicenda politica e intellettuale di questi tre giganti delle moderne lettere sudamericane. Martin Krause si occupa di Borges, Ángel Soto di Octavio Paz e Carlos Sabino di Vargas Llosa, mentre Héctor Ñaupari firma il saggio introduttivo su Araldi neri, figli del limo e intellettuali da quattro soldi. I letterati latinoamericani e la libertà. In America latina, che per tutto il secolo breve è stata sotto incantesimo sovietico, peronita e castrista, la libertà non ha mai fatto problema (come oggi nei paesi musulmani, a dispetto di tutte le esportazioni di democrazia): prima di tutto veniva la mano forte che avrebbe imposto la giustizia sociale a los capitalistas e castigato i maledetti gringos. Borges e gli altri non la vedevano così. Per loro (anarchici, liberali, libertarian) lo Stato era (e per Vargas Llosa lo è ancora) il nemico, mentre per l’intellighenzia conformista latinoamericana era (ed è) la lampada di Aladino, da sfregare se si vuole che il genio della justicia social liquidi la proprietà privata, elimini il crimine, realizzi il paradiso in terra. Inutile far notare loro il totale fallimento di tutte le tirannie fondate sull’economia pianificata, come nelle fantasie delle sinistre comuniste e terzomondiste e delle destre fascistissime: il perfetto idiota latinoamericano (ma anche italiano e di tutte le nazionalità) non sa cosa farsene dei fatti, lui ha occhi soltanto per le chimere e orecchie solo per le teorie. Scrive Paz, citato da Ángel Soto: «Prima d’intraprendere la critica delle nostre società, noi scrittori sudamericani dobbiamo cominciare dalla critica di noi stessi. Prima cosa è curarci dall’intossicazione delle ideologie banalizzanti».
Dice Borges, cogliendo il punto esatto: «Nessun politico può essere una persona onesta. Un politico sta cercando degli elettori e dice quel che gli elettori s’aspettano che dica. La professione dei politici è mentire: Il caso d’un re è diverso. Un re è qualcuno che riceve questo destino, e poi deve compierlo. Un politico no, un politico deve fingere e sorridere, simulare cortesia, deve sottomettersi malinconicamente ai cocktail, agli atti ufficiali, alle ricorrenze patrie. È uno specchio o l’eco di ciò che altri pensano».