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 2015  ottobre 20 Martedì calendario

Il caso di Walter Cominelli, gettato nel forno dal fratello

MARMENTINO (BS).
Bastano due dati ufficiali per comprendere le ombre che investono e complicano quello che viene ormai chiamato “il giallo della fonderia”. Il primo fascicolo, quello aperto sulla scomparsa dell’imprenditore cinquantenne Mario Bozzoli, l’8 ottobre, è per sequestro di persona, ma il sequestro non sembra esserci stato, anzi. «Gli elementi a disposizione – afferma lo stesso procuratore capo di Brescia, Tommaso Buonanno – fanno ritenere che il signor Bozzoli non sia mai uscito da quella fabbrica». Il secondo fascicolo, con gli atti sulla scomparsa e sulla morte di Beppe Ghirardini, operaio e coetaneo di Bozzoli, trovato rannicchiato accanto a un torrente d’alta montagna domenica pomeriggio, con il capello impermeabile volato via dalla testa calva, è per istigazione al suicidio: sul corpo, almeno stando ai primi esami, come l’autopsia eseguita ieri pomeriggio, non ci sono però tracce evidenti di ferite esterne, da coltellata, o pallottola. E per il veleno bisognerà aspettare i tempi lunghi degli accertamenti sulle sostanze tossiche. Il dato di fatto essenziale di questa inchiesta complicatissima in mano al comando provinciale di Brescia comunque non cambia. Ogni volta che si esce dalla Bozzoli srl di Marcheno, per una testimonianza, o per un accertamento, poi si torna lì, si è sempre costretti a rientrare, come hanno fatto di nuovo ieri i carabinieri del Ris, l’anatomopatologa Cristina Cattaneo, i cani “cerca cadavere”. E, ancora una volta, sono le parole del procuratore capo a sottolineare uno degli scenari possibili: «Sì, ci risultato situazioni di contrasto in merito alla gestione dell’azienda e alla sua conduzione, ci stiamo lavorando». In effetti, aggiungono gli inquirenti, «Abbiamo constatato rapporti non idilliaci e una forte dialettica interna», e cioè tra Mario, scomparso, e soprattutto i due figli del fratello Adelio. È anche in questo contesto che, spiega Buonanno, «chiederemo la consulenza di un ingegnere metallurgico». Repubblica l’ha già fatto, rivolgendosi per un parere a Carlo Mapelli, ordinario di metallurgia e siderurgia al Politecnico di Milano. Con una premessa che, per quanto possa essere macabra, va considerata, con rispetto e prudenza, in questa fase cruciale delle indagini. Nel 1992, sempre qui nei dintorni di Brescia, venne ucciso e gettato in un forno della fusione dei metalli Walter Cominelli. È l’unico precedente noto. Alcune parti minime del suo corpo, e anche frammenti della pallottola che l’aveva ucciso, allora vennero trovati e servirono sia per l’identificazione, sia per l’incriminazione del fratello, che prima della sentenza definitiva di condanna scappò, almeno questo si disse, all’estero. Questa volta non sono emerse tracce. Dove andrebbero trovate, nell’ipotesi peggiore, che viene avvalorata almeno in parte dalle parole del magistrato? «Eventualmente – dice il professore – nell’impianto di aspirazione fumi, lì possono essere captati frammenti di materia organica, perché oggi le aziende devono garantire la sicurezza degli operai e dell’ambiente, hanno impianti creati per non immettere fumi, per non intossicare, filtri che possono captare qualcosa, anche se la ricerca è difficilissima». In questo scenario, spicca innegabilmente il ruolo di Beppe Ghirardini: era lui che si occupava dei forni, lui che, quel giovedì 8 ottobre, fu l’ultimo a vedere l’imprenditore Bozzoli andare verso gli spogliatoi, dove sono rimasti i suoi abiti, le chiavi dell’auto e di casa, ma non il telefonino, che portava sempre nella tasca della tuta. Ghirardini, che quel giovedì di mistero avrebbe dovuto fermarsi sino alle 22, resta sino alle 23.30. Il mercoledì successivo, al mattino, chiama gli amici del bar “Al Tre Sette” di Marmentino. Sono il gruppo detto dei “segugisti”. I compagni di doppietta di Ghirardini si chiamano tutti Frola, tutti imparentati, e uno di loro, ieri sera, ricostruisce così la mattina: «Beppe ha chiamato mio cugino, che non aveva voglia di andare, perché pioveva, e gliel’ha detto. Noi ci muoviamo in sei, o sette. E anche se lui non si è presentato, poi la battuta l’abbiamo fatta lo stesso». Ghirardini, dunque, rinuncia alla compagnia, esce senza i cani amatissimi (andava a comprare per loro la carne a Montichiari, ogni venerdì, cento chilometri). Esce senza i fucili. Senza il passaporto. E, per arrivare nel luogo dov’è stato trovato morto, oltre Pontedilegno, fa un giro che nessun paesano avrebbe fatto, «va sul Maniva, Passo Crocedomini, Breno, Edolo, mentre sarebbe bastato andare sul lago d’Iseo». Per gli amici cacciatori nessun dubbio: «Beppe non era né il tipo da uccidersi, né da uccidere». Per la famiglia, anche se è più ovvio, lo stesso: «Mai si sarebbe ucciso». In paese aveva raccontato che finalmente, a Natale, dopo tanti contrasti con la moglie divorziata, sarebbe venuto in Italia il figlio, che sinora non gli avevano fatto incontrare. Solo, sì. Triste, sì, a volte. Ma che sia morto il testimone principale della scomparsa di Bozzoli o è una coincidenza formidabile, oppure è una sorta di “segnale” per la strada che le indagini potranno prendere, una volta finiti gli accertamenti della Scientifica. «Tanto, qui non scappa nessuno, e se c’è un assassino lo prenderemo», dice uno degli inquirenti.