La Stampa, 20 ottobre 2015
Enrico Comici, il grande scalatore delle vette impossibili che poi morì per una caduta di pochi metri
Alcuni lo chiamano fato. Altri vi leggono misteriose volontà inconsce. Ma nessuno può davvero capire una morte assurda. Vediamo l’intrepido campione correre per tutta la vita sul filo del baratro sfidando la sorte per poi morire in un «banale incidente». Proprio questo accadde 75 anni fa al più grande scalatore dell’epoca d’oro del sesto grado: Emilio Comici. Dopo una vita di scalate giudicate al tempo impossibili, il 19 ottobre 1940 precipitò da pochi metri in Val Gardena mentre faceva scuola di roccia a un’amica. Lui, che aveva aperto circa 200 nuovi itinerari e compiuta una serie impressionante di imprese, come la prima via di sesto grado italiana (sul Sorapiss), la salita slegato in tre ore lungo la parete nord della Cima Grande di Lavaredo, e poi le vie sulla Nordovest del Civetta o sulla Cima d’Auronzo, o come l’ultima, tra le più difficili, sul Salame del Sassolungo.
Irredentista
Comici nasce a Trieste nel 1901 da una famiglia operaia. A 15 anni entra come impiegato ai Magazzini Generali al porto. E si dedica alle gite fuoriporta con l’associazione 30 ottobre, nome che allude al giorno del 1918 quando Trieste si era proclamata libera dall’Austria. È tra quei giovani irredentisti che scopre le pareti della Val Rosandra, trampolino verso le grandi pareti. Si trasferisce a Misurina, a un passo dalle Tre Cime, dove inizia la carriera di guida, cui affianca l’attività di divulgatore di alpinismo, con innumerevoli serate a tema con proiezioni di diapositive e filmati. Non stupisce che il regime si avvicini a lui per vestirlo con la camicia nera. All’epoca il fascismo guardava con grande favore gli alpinisti, uomini veri, audaci, che nelle atmosfere ultraterrene delle alte quote non temono la morte. La propaganda li presentava come campioni della razza italica, e li poneva nel pantheon degli spiriti eletti. Comici poteva essere uno di questi. Anche se non si adattava a pieno al modello del maschio indomito. Più che un lottatore sembrava un ballerino che saliva con grazia accarezzando la roccia. Si fletteva e si rannicchiava sugli appigli diffondendo un senso di leggerezza, come in un volo senza peso. Era minuto, aggraziato, assumeva pose un po’ angeliche e aveva quella voce acuta: «la voce a spillo d’Emilio» diceva il suo compagno di cordata Fosco Maraini (il padre di Dacia). Ma il fascismo non andava troppo per il sottile, e lo promosse a idolo del momento, premiandolo con la medaglia d’oro e con il ruolo di commissario prefettizio a Selva di Val Gardena.
Malinconia
Ma i successi non riuscirono a togliere al grande scalatore quell’ombra di malinconia che gli traversava il viso. L’ultima foto in cima al Salame del Sassolungo rimane forse la più emblematica: lo sguardo rivolto in basso, il viso rugoso cotto dal sole, romantico amante delle montagne che si vede sfuggire la giovinezza. È sulla soglia dei quarant’anni, e ancora poco gli rimane da vivere. Lascerà le sue corde in un giorno d’autunno, su una roccia anonima vicino alla Val Gardena, rimanendo per sempre quell’angelo del sesto grado che tutti ammiravano. All’indomani della tragedia, un gruppo di amici raccolse le sue memorie scritte e confezionò per Hoepli Alpinismo Eroico, destinato a diventare una grande classico della letteratura di alpinismo, oggi riproposto in una nuova versione anastatica.