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 2015  ottobre 20 Martedì calendario

Veramente il Pil cinese scenderà fino al 3%. Lo dicono gli stessi cinesi in visita a Roma. E ci rimetteremo parecchio

Ad un certo punto Jiang Xipei, numero uno di Far East Holding, un gruppo da sei miliardi di dollari di utili, lo dice senza ipocrisie: «Nei prossimi anni la crescita cinese oscillerà fra il tre e il cinque per cento, quello che da noi viene considerato un tasso sostenibile. Dovrete tenerne conto». Roma, Palazzo della Farnesina, ieri. Nella sala razionalista del ministero degli Esteri, sotto un immenso lampadario di cristallo, si stanno incontrando un gruppo di imprenditori italiani e il «China Entrepreneur Club», il più influente del Sol Levante. Fra i presenti di lingua italiana corre un brivido lungo la schiena. La realtà è più forte del desiderio di chi vorrebbe vedere la Cina correre all’infinito. Scendono i prezzi delle case, gli investimenti pubblici, la produttività, il rendimento del capitali. «L’economia cinese sta spostando i suoi fattori di crescita da esportazioni e manifattura ai consumi interni e ai servizi», diceva l’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale. Eppure ancora pochi giorni fa al vertice di Lima nessuno sembrava essere pronto ad affrontare la dura legge dei numeri. Eppure i segnali erano lì, sotto i nostri occhi da quando, ormai due anni fa, Xi Jinping aveva promesso di giudicare i dirigenti locali del partito sulla base di parametri di benessere, o quando aveva iniziato a parlare di «crescita armonica» e deciso di chiudere un quinto dei cementifici perché l’aria delle città era irrespirabile.
Se gli economisti non hanno sbagliato le previsioni, e se i cinesi non hanno messo troppa polvere sotto il tappeto, non sarà un atterraggio brusco. Le peggiori stime dicono che nel 2016 l’economia del Dragone crescerà ancora del sei per cento. Ma Confindustria calcola che se e quando la Cina si attesterà sui tassi ipotizzati da Xipei al quattro per cento, per la sola Italia vorrà dire perdere mezzo punto di prodotto. Detta diversamente, ogni punto di crescita cinese vale più o meno lo 0,15 della nostra. C’è poi l’altra faccia della medaglia: il rallentamento della Cina significa anche il consolidarsi di una generazione di consumatori benestanti, sempre più a caccia di prodotti di qualità europea. C’è l’occasione di trasferire know how tecnologico, perché oggi anche in Cina c’è domanda di energia pulita e di auto che non inquinano. E c’è il deflusso dei capitali, che cercano occasioni fuori dei propri confini. Un bel pezzo dei mille miliardi volati via in un anno dalle economie emergenti sono loro.
Prima di atterrare in Italia la delegazione del Cec – guidata da un ex vicepresidente della Banca del Popolo, Ma Weihua – è stata a Berlino. Due anni fa aveva viaggiato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, l’anno scorso in Australia e Nuova Zelanda. I governi europei ormai fanno a gara per attirare capitali cinesi in cerca di rendimenti migliori di quelli disponibili in Cina. Mentre ieri mattina il Cec incontrava Matteo Renzi a Palazzo Chigi, a Downing Street si stendevano i tappeti rossi per Xi Jinping e David Cameron nominava il patron di Alibaba Jack Ma – il più noto dei 47 associati al Club degli imprenditori – consulente personale per le questioni economiche. La già lunga lista di investimenti cinesi in Italia potrebbe presto arricchirsi. L’ambasciatore a Roma Li Ruiyu è un altro che alla Farnesina parla con chiarezza: «Dopo 45 anni di rapporti di amicizia possiamo dire che l’Italia non desta più preoccupazioni». Per la prima volta da tempo immemore c’è la sensazione che il governo Renzi avrà vita lunga. E poiché quegli investimenti sono spesso in aziende pubbliche, per i cinesi non c’è contesto migliore di questo.