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 2015  ottobre 20 Martedì calendario

In un anno 40 milioni di tonnellate di pesce vengono ributtati in mare perché catturati e uccisi per sbaglio

La cima del vulcano di Pico è un puntino appeso nel blu tra il cielo e il mare delle Azzorre. La prua della barca taglia in due una macchia argentea svelando il mosaico di pesce azzurro che la compone. È un cimitero galleggiante quello che i ricercatori francesi del Centro per lo sfruttamento del mare stanno attraversando. Ricciole, lampughe. Una tartaruga, specie protetta, sta lì capovolta. Anne, biologa marina, la raccoglie: «Morta, come il resto». È finita nelle reti di un peschereccio industriale. «Una di quelle fattorie del mare nelle cui stive vengono ammassate fino a 2 mila tonnellate di tonni». Il resto, via. «Nelle grandi reti a circuizione finiscono “per errore” anche 150 specie diverse: ma l’errore è pescare solo una specie per buttarne 150». Catture accidentali, le chiamano. Pesci troppo piccoli per essere commercializzati o che non possono alimentare il mercato delle scatolette. Nel 2013, dichiara la Fao, sono stati sbarcati nel mondo 92 milioni di tonnellate di pesce. E sbarcati non equivale a pescati: il dato non tiene conto delle catture illegali e delle catture accidentali che andrebbero da un minimo di 18 a un massimo di 40 milioni di tonnellate l’anno.
Dai rigetti al caso acciughe
Superato lo stretto di Gibilterra i cimiteri galleggianti sono disseminati nelle acque internazionali. Ma ogni tratto di mare ha il suo cimitero. In Italia nel 2014, con quasi 32 mila tonnellate, l’acciuga è la specie più pescata. Stretto di Sicilia. Nord Adriatico: Giovanni Spina, artigiano del mare, le pesca con la Lampara. Ha deciso che avrebbe seguito le orme del padre e del nonno riparando reti nella rimessa della casa di famiglia vicino a Chioggia. Adesso che le sue, di reti, sono già state tagliate due volte, usa il cognome della madre per continuare la battaglia: «I cimiteri dei nostri sardòn ? Una vergogna. Son quelli delle volanti che li ributtano in mare: pescano troppo, pescetti ormai. E quando i prezzi crollano, tutto finisce in mare. I croati razziano tutto per ingrassare i tonni...». Quelli delle volanti sono gli uomini delle volanti a coppia, spiega Serena Maso di Greenpeace. «Pescherecci che tendono un’unica rete a strascico e avanzando paralleli prendono tutto quello che c’è in mezzo». La rivalità tra loro e Lampare risale 20 anni fa, a quando in Veneto furono concesse le prime licenze sperimentali. «Dopo qualche anno lì decisero di regolarizzarle. In Sicilia ancora oggi quei permessi speciali vengono rinnovati ogni sei mesi».
L’allarme e la polemica sulle norme
«Nel mondo il 30% degli stock ittici selvatici monitorati dalla Fao sono sovrasfruttati, il 61% completamente sfruttati», raccontano i ricercatori del Cnr-Ismar Alessandro Lucchetti e Alberto Santojanni. E Stefano Cataudella, presidente della Commissione generale pesca del Mediterraneo, aggiunge: «I dati mostrano che nel Mare Nostrum il 93% degli stock valutati non è pescato in modo sostenibile». Tra questi c’è l’acciuga. Specie per la quale il Comitato tecnico scientifico economico sulla pesca (Stecf) sta valutando l’introduzione di una quota. Come per il tonno rosso. Si sta poi pensando a strumenti di pesca più selettivi e divieti in zone (e periodi) dove i giovani sono numerosi. La prima norma scattata da gennaio per combattere i rigetti in mare è l’obbligo di portare a terra e destinare a un consumo non umano i piccoli pelagici e i pesci che vivono sul fondo catturati in eccesso o sotto taglia. Nessuno l’ha ancora applicata. Così, quando alcuni giorni fa tre quintali di pesce azzurro hanno invaso la rada di Porto Torres qualcuno ha provato a nobilitare l’ennesimo rigetto: «È la mobilitazione dei pescatori contro la mancanza di chiarezza delle nuove norme». Ma la Capitaneria – 1.284 i sequestri da gennaio a oggi e 300 mila chili di pesce sequestrato – ha chiarito il tutto mettendo a verbale il tentativo maldestro di due pescatori denunciati di sbarazzarsi del pescato in eccesso proprio davanti al porto. Le acciughe ripescate sono state messe in cassonetti recuperati dal Capitano del porto per essere smaltite. Da chi? Dal Comune. Un particolare che pone l’attenzione su una delle questioni aperte: chi si dovrà occupare dello smaltimento di questi pesci? Chi sosterrà i costi? E soprattutto: consentire di sbarcare esemplari sotto misura non rischia di incentivare cattive abitudini, che potrebbero diventare pessime se si permettesse di vendere quei pesci ai produttori di mangime?
Angelo Dentone, 45 anni, è un pescatore di Lampara. A ottobre le acciughe nell’Alto Tirreno sono praticamente finite, così ai comandi della sua Alga Terza sta cacciando boniti. Nella rete appena salpata ci sono una ventina di tonnetti rossi. I segnali della ripresa. «Per fortuna sono vivi e li molliamo – spiega —. Ma anche se fossero morti, e quante volte accade, li ributteremmo in mare. Così anche con i tonni sopra i 30 chili, non abbiamo quote per questa pesca, stanno tutte nelle mani di pochi che pescano anche pesce azzurro con metodi intensivi, e senza i permessi per le catture accidentali non abbiamo scelta. Vergogna devono provarla i legislatori». Diverso il discorso per il pesce azzurro, in quel caso la scelta ci sarebbe: pescare meno. «Tutte le volte che caliamo una rete non sappiamo quanto tireremo su, né sappiamo quanto pescheranno gli altri. La conseguenza è di mollare l’eccesso in mare o vederlo mandare al macero al mercato ittico. Darlo in beneficenza sì, ma di pagare lo smaltimento non se ne parla».
Le catture sotto taglia
Leonardo Zanni ha 24 anni e vende pesce nei mercati di Milano. Come papà Francesco, nonna Rosina. Ma con un futuro incerto. Nel telefonino conserva la foto di uno scorfano lungo quanto una moneta. Sta lì, tra scatti con gli amici davanti a un boccale di birra, come a dire: «Per quanti anni avrai un lavoro?». «Quanti?», chiede lui. Quando suo padre si è alzato durante una riunione tra addetti ai lavori e ha mostrato la foto ha sentito le sue parole cadere nel vuoto: «Lasciate loro il tempo di fare almeno una volta l’amore. Di riprodursi». Silenzio. Oggi dai mercati ittici le cassette di micro-trigliette o i vietatissimi bianchetti non passano più. Ma basta andare in banchina o nei mercati di mare per capire che i pesci sotto taglia vengono pescati. E venduti. Insieme a tranci di tonno catturato illegalmente: delle quasi duemila tonnellate previste dalla quota solo 406 sono vendute dai pescatori al mercato italiano (per 6,5 euro al chilo), le altre 1.539 sono destinate alle gabbie per l’ingrasso che fanno affari con i giapponesi (per 11,5 euro al chilo). Stanno lì con orate e spigole allevate spacciate per selvatiche: nel 2014, a fronte di una fortissima richiesta, ne sono state pescate solo 523 e 167 tonnellate.
Una responsabilità di tutti
A Sestri Levante i pescherecci con la paranza arrivano in porto nel pomeriggio. E anche il sotto taglia, fisiologico, finisce sulle bancarelle. Ricciole, «limoncini», di 20 centimetri; rane pescatrici da porzione. Possibile? «Possibile – spiega Marco Costantini, responsabile del programma Mare del Wwf —. Per queste specie non c’è taglia minima. Solo per una parte delle quasi 300 del Mediterraneo i regolamenti le prevedono». In assenza di queste vale un minimo di sette centimetri. Ma come si fa ad applicare una taglia simile a una ricciola che arriva a pesare 60 chili?
Per continuare a mangiare pesce in futuro bisogna quindi conoscere cosa consumare adesso. «Non possiamo permetterci il lusso di non sapere cosa mangiamo», continua Costantini dall’allestimento sulla pesca sostenibile ad Expo per il progetto Fish Forward. Primo, rispettiamo le taglie minime: «Se troviamo una cernia da porzione sulla bancarella o nel piatto al ristorante scattiamo una foto e denunciamola». Secondo, consumiamo con consapevolezza: «Per legge ogni pesce deve essere accompagnato da un’etichetta con i dati di tracciabilità. La certificazione di enti, come Msc, aiuta a capire se un prodotto è stato pescato in modo sostenibile e se possiamo aiutare un Paese in via di sviluppo. Più di un pesce su due di quello che mangiamo in Europa è importato». Terzo, evitare di mangiare le specie più a rischio, le bistecche del mare, e preferire pesci meno conosciuti. Zanchette, merlani, sciabola...
«Guai però a chiamarli poveri». Gianluigi, piccolo pescatore del Levante Ligure, esce in mare all’alba con il gozzo e salpando la rete intona il suo rosario: «Una dozzina di cefali, dorini... Vede questa macchia sul muso, sono muggini che nuotano in mare e non in porto. Triglie, mormore, sugarelli... Questi sono lucci di mare. Certo che ormai con la pesca non ci campo». Un paio di mormore non raggiungono la taglia minima. Gianluigi carica sul furgone anche quelle e inizia il suo giro: «Donne, pesce fresco. Pesce di casa».
Allevare in mare aperto, come nel Tigullio
Nel Golfo del Tigullio, a un miglio dal porto di Lavagna, Roberto Cò si avvicina con la barca a quella che sembra una piscina gonfiabile. Attorno altre 11. Il tempo di accostare ed ecco centinaia di pesci argentei fare il pallone sottobordo come cagnolini davanti a un tavolo apparecchiato. «Sono orate di 18 mesi, pesano circa 400 grammi». Gli avannotti seminati, il termine è mutuato dall’agricoltura, due primavere fa sono pronti per la «raccolta»: oggi ad Aqua è giorno di pesca. Quando 15 anni fa questo ingegnere con il pallino per la ricerca nel settore marino chiese un finanziamento per allevare orate e spigole in mare aperto, l’acquacoltura aveva iniziato la sua scalata: nel 2004 lui faceva 40 tonnellate l’anno, nel mondo se ne producevano oltre 40 milioni e per allevare ogni chilo di pesce se ne andavano quattro di specie selvatiche. Oggi lui ha superato le 300 tonnellate e la produzione globale i 70 milioni, mentre il rapporto tra selvatico usato come mangime e allevato è uno a uno. I siti off-shore continuano però a essere solo il 20%. Il futuro è questo? «Dipende dalla sostenibilità del modello: il nostro prevede gabbie in un tratto di mare spazzato da correnti e con profondità di 40 metri». Gabbie sommergibili che sono affondate a ogni mareggiata, copiate da quelle usate nei mari del Nord per salvare i salmoni dal ghiaccio. «Dentro nuotano pesci con una densità di 15 chili per metro cubo d’acqua. Altrove è di tre volte tanto». Il sistema off-shore a bassa densità fa bene all’ambiente. Ma basta? « Conta anche quello che mangiano i pesci. Ai nostri diamo farina di pesce, olio con Omega 3 e farine vegetali. Niente scarti di pollo o maiali permessi dal bio ma che peggiorano il gusto, né Ogm o antibiotici». A fine giornata le tonnellate pescate (e certificate) sono tre: 600 casse vendute tra i 13 e i 15 euro al chilo (qualche euro in più di quelli allevati tradizionalmente) a ristoranti, supermercati e gruppi di acquisto solidale.