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 2015  ottobre 17 Sabato calendario

Primarie, così Renzi rottama il sistema che lo portò al potere

Era il settembre del 2013 e lui le voleva «spalancate, non aperte». Lui è Matteo Renzi e l’argomento erano e sono le primarie. Parlava di quelle per la segreteria del Pd, ma poco cambiava, perché dovevano «tutte» funzionare allo stesso modo: «Tutti coloro che vogliono, partecipano. Non ci dovrebbero essere barriere, preiscrizioni.
Le primarie sono chiedere alle persone di dare una mano per cambiare il Paese». Era coerente, quel Renzi lì: anche l’anno prima, quando correva per fare il candidato premier del centrosinistra, aveva chiesto «primarie libere, aperte e democratiche». Un albo degli elettori, come quello che volevano i suoi avversari, per impedire che chiunque si presentasse ai gazebo? Per carità: ci sono pericoli per la privacy e rischi di «schedatura da regime comunista», avvertiva Roberto Reggi, coordinatore della campagna elettorale renziana. Poi però successe che le primarie del 2013, a differenza di quelle dell’anno precedente, Renzi le vinse: divenne segretario del Partito democratico e usò subito l’incarico per prendere il posto di Enrico Letta a palazzo Chigi. Adesso vive e regna sulla nazione e sul partito, e suona una musica diversa. Il tempo del rock è finito, da qui in poi solo musica da camera e marcette militari. Il prossimo passo? Mai più primarie aperte. Intanto sta provvedendo a socchiuderle; il doppio giro di chiave, se servirà, verrà dopo. Il documento è già pronto e attende solo la sigla del capo per essere distribuito ai circoli del Pd. Roba grossa: due modifiche allo statuto del Partito democratico. La prima per istituire l’albo degli elettori. Questo servirà per scegliere i candidati alle cariche istituzionali, cioè per le primarie a sindaco (che presto potrebbero essere convocate a Roma, forse anche a Milano e un giorno lontano, chissà, persino a Napoli) e a presidente di Regione, ma anche per le primarie nazionali, quelle con cui viene scelto il segretario del Pd. Ovvero colui che, in base allo stesso statuto, «è proposto dal Partito come candidato all’incarico di presidente del Consiglio dei ministri», oltre ad essere l’unico iscritto al Pd che, in caso di primarie di coalizione, può correre per essere il candidato del centrosinistra. Dal prossimo anno, chi vorrà votare a queste primarie dovrà registrarsi in anticipo. Oggi l’articolo 2 dello statuto del partito apre invece la competizione a tutti gli «elettori e le elettrici del Partito democratico». Niente obbligo di elenchi, insomma, né certificati da presentare ai gazebo: basta dichiararsi elettori per partecipare. La seconda novità riguarda le primarie per la scelta del segretario regionale del Pd, e qui la chiusura è ancora più netta. Adesso, in base all’articolo 15 dello statuto, la partecipazione è «aperta a tutti gli elettori», ma presto cambierà anche questo: le regole che Renzi vuole introdurre la limitano ai soli iscritti, come già avviene oggi per la scelta dei segretari provinciali e comunali. In attesa di varare le nuove norme, dal Nazareno hanno bloccato le primarie regionali in Liguria, Puglia e Veneto, previste in tempi brevi ma rimandate a primavera, quando lo statuto sarà stato riscritto. È la solita storia del rivoluzionario che va al potere e appena si siede sul trono diventa più conservatore del re che l’ha preceduto. Perché la coerenza è una bella cosa, ma la convenienza è meglio. Storia di ruoli che si ribaltano: nell’autunno del 2012, alle primarie per fare il candidato premier del centrosinistra, erano gli avversari di Renzi, i bersaniani, a temere che il giovane e spregiudicato outsider fosse contrario a limitare la partecipazione agli iscritti all’albo perché voleva «vincere a tutti i costi, anche con gli elettori del centrodestra in incognito», come disse uno schiettissimo Enrico Rossi. E Renzi, sul fronte opposto, a spiegare battagliero che le primarie devono invece dare la «possibilità a ciascun cittadino di andare al gazebo e mettere un nome liberamente, senza fare albi degli iscritti e pre-registrazioni». «Avrei perso lo stesso», commentò un anno dopo, «ma il Pd non avrebbe perso le elezioni, perché abbiamo mandato via persone che volevano votarci. Basta con la politica di respingimento ai seggi». Sosteneva, quel Renzi là, che far votare alla primarie solo chi si iscriveva all’albo, cioè chi accettava di firmare l’appello pubblico per il centrosinistra, significasse addirittura «vanificare la Carta Costituzionale», dove sta scritto che il voto è «libero e segreto». Per impedire che ciò avvenisse il sindaco di Firenze si rivolse al garante per la Privacy, mentre i suoi parlavano di «schedatura da regime comunista», spiegando (non senza qualche ragione) che «ci sono professionisti che non vogliono essere catalogati nella sinistra, perché temono di perdere tutti i clienti che votano dall’altra parte». Vero: da quando Renzi è segretario, alle primarie del Pd – a Roma, in Liguria, in Campania e altrove – se ne sono viste di tutti i colori, dalle gang di immigrati con i pizzini in mano agli elettori siciliani paracadutati sul seggio di Certosa. Ma non sono scene nuove, c’erano state anche prima, e a chi le usava come pretesto per irreggimentare le primarie il sindaco di Firenze replicava offeso: «Contesto che si faccia passare il concetto delle primarie aperte come strumento con cui una banda organizzata decide di mettere il naso nel nostro partito». L’idea che porta avanti adesso, quella di riservare agli iscritti il voto per la scelta del segretario regionale, era lui stesso a bocciarla sdegnato. Ai «teorici delle tessere», suoi avversari, ribatteva: «Ci sono posti dove il Pd non fa il tesseramento da due anni, volete che lì non succedano pasticci?».