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 2015  ottobre 17 Sabato calendario

Rivoluzioni monetarie: Quando gli yuan gireranno liberi per il mondo, sarà difficile che il mercato si astenga dall’operare sulla valuta cinese

Anche stavolta per la Cina si tratta di una rivoluzione: con un modello prestampato di appena una pagina, intitolato «Chinese Inter-Bank Fx Market Registration Form» e destinato all’adesione di banche centrali, istituzioni finanziarie internazionali e fondi sovrani, il 30 settembre scorso la People’s Bank of China ha avviato l’operazione di smarcamento dal dollaro.
Le operazioni di cambio saranno gestite attraverso un’autonoma piattaforma, denominata China Foreign Exchange Trading System (Cfets). Superfluo sottolineare la consueta prudenza delle autorità cinesi e soprattutto la profonda diffidenza nei confronti dei mercati anonimi, delle dark pool e della speculazione: le operazioni di cambio verranno gestite sotto la vigilanza della banca centrale. È un controllo specifico: una volta che gli yuan gireranno liberi per il mondo, sarà difficile che il mercato si astenga dall’operare sulla valuta cinese. Verrà meno l’eccezionalità dello yuan, finora non convertibile sul mercato dei capitali: la Cina rinuncia all’ancoraggio diretto col dollaro, che in passato le aveva consentito una straordinaria protezione del cambio, fino al punto di essere stata accusata di manipolarlo in quanto il consistente reimpiego dell’avanzo commerciale sull’estero in titoli di Stato americani ne avrebbe evitato la rivalutazione.
Basta poco per comprendere come questo vantaggio si fosse trasformato nel tempo in un handicap: nel 2014 la Cina aveva asset all’estero per 6.409 miliardi di dollari e passività verso l’estero per 4.632 miliardi, pagando oltre 30 miliardi l’anno per rendite e dividendi.
Non solo per via della generale denominazione del commercio internazionale in valuta straniera, ma soprattutto per averne così vestiti tutti i crediti i debiti, Pechino è esposta a rischi sistemici: sul piano dei cambi e dei tassi di interesse, dopo le ripetute altalene di dollaro, yen ed euro, non può rimanere al rimorchio delle altrui politiche monetarie e valutarie. Per questo non può più rimanere una economia valutariamente eterodiretta. Di converso anche la eccezionalità del dollaro ne sarà intaccata. Basta pensare che la posizione internazionale netta degli Usa nel 2014 era negativa per 6.801 miliardi di dollari mentre quella cinese è attiva per 1.403 miliardi. E che l’attivo della bilancia dei pagamenti correnti cinesi è positiva per 220 miliardi di dollari, mentre quella statunitense segna -389 miliardi. Il finanziamento del debito pubblico americano non sarà più automaticamente assicurato dal reimpiego dell’avanzo commerciale cinese, come avvenuto fino al 2013. Da allora infatti la Cina ha prima stabilizzato e poi ridotto la sua detenzione di Treasury bond, di cui comunque rimane il secondo proprietario al mondo dopo la Federal Reserve: a luglio scorso la quota cinese si era ridotta a 1.241 miliardi di dollari rispetto al picco di 1.317 raggiunto a novembre 2013. Il fenomeno è generalizzato: anche il Giappone ha ridotto le sottoscrizioni e lo stesso hanno fatto molti altri Paesi, come Belgio, Russia o Norvegia. Le motivazioni di questa generalizzata riduzione nella detenzione di US Treasury bond sono eterogenee: se la Russia ha sicuramente disinvestito per fronteggiare il deflusso di capitali determinato dalla crisi ucraina e dalle sanzioni occidentali, Norvegia e Giappone stanno probabilmente cercando di evitare le perdite sui titoli in portafoglio derivanti dai futuri aumenti dei tassi americani. Un futuro rialzo dei tassi Usa indurrà altri capitali stranieri a sottoscrivere Treasury bond, ma il rafforzamento del dollaro peggiorerà nuovamente i conti con l’estero degli Usa. Con la concorrenza dello yuan come moneta di riserva internazionale, il finanziamento del Tesoro americano, in ogni caso, perderà un’insostituibile posizione di rendita.
C’è un secondo fenomeno da considerare: la fuga di capitali dalle economie emergenti, cui si assiste da mesi e che ha provocato tensioni e pesanti flessioni sui cambi. Per quanto riguarda la Cina, è stato determinato dalla convergenza di quattro ordini di fattori: l’incremento degli investimenti cinesi all’estero; la volontà degli operatori di proteggersi dal rischio di cambio; l’esigenza di ridurre il leverage e l’esposizione debitoria verso l’estero; gli aggiustamenti derivanti dal modificarsi del cambio dello yuan. La riduzione della detenzione cinese di US Treasury bond è quindi la contropartita della strategia di muoversi liberamente con investimenti all’estero e forse anche con prestiti, magari nei confronti dei Paesi emergenti, di cui la Cina è il maggior importatore. Lo yuan dimostra di essere pronto a svincolarsi dalla supremazia globale del dollaro, così come quest’ultimo sfidò la sterlina negli anni 20, riuscendo infine a detronizzarla. Oggi la moneta di Pechino si colloca solo al settimo posto delle riserve valutarie ufficiali, con poco più dell’1%, mentre il biglietto verde campeggia al 40%: sono rapporti che non riflettono né il potenziale economico né il ruolo commerciale di Cina e Usa. Pechino ha necessità di dotarsi di una propria infrastruttura finanziaria globale, adeguata alla dimensione ormai colossale della sua economia. Per riequilibrare i rapporti con il mondo deve comunque esportare capitali, che compensino l’avanzo delle partite correnti. E non può più farlo usando solo monete straniere. Le recenti vicende cinesi, che hanno interessato prima i prezzi degli immobili e poi i corsi azionari, dimostrano l’insufficienza del suo solo mercato interno ai fini di un reimpiego stabile del surplus commerciale: occorre poter investire yuan direttamente all’estero, senza più la duplicazione tra moneta interna ed estera. L’obiettivo di far acquisire allo yuan dello statuto di moneta convertibile sul mercato dei capitali sembra essere parte di una strategia geopolitica più ampia di competizione con gli Usa, in cui la Cina fa da sponda, sul piano economico e finanziario, al ruolo crescente che la Russia sta cercando di riacquisire dal punto di vista politico e militare.
La creazione di una banca internazionale di investimenti alternativa alla Banca Mondiale, così come la progettata istituzione di un Fondo Monetario ad hoc tra i Paesi Brics, rappresentano i segni dell’insofferenza cinese rispetto alla sua sottorappresentazione all’interno del Fmi e degli ostacoli frapposti all’ammissione dello yuan tra le valute ufficiali di riserva accanto a dollaro, euro, sterlina e yen. Cina e Russia reagiscono, all’unisono, al «circondamento» che avverrebbe con la creazione attraverso il Tpp di un’area transpacifica che esclude la Cina e attraverso il Ttip di un’area transatlantica che esclude la Russia. Gli Usa manterrebbero, per via di accordi commerciali, quella duplice eccezionalità del dollaro e politico-militare, che ora viene messa in discussione. C’è da rilevare, però, come la eccezionalità del dollaro sia ormai tracimata in un sovraccarico di responsabilità nei confronti dell’economia globale, che ormai nuoce alla stessa economia americana. Da oltre un trentennio, dall’epoca della Greenspan Put, la Fed è divenuta il prestatore di ultima istanza del mondo intero, per cui ogni immissione di nuova liquidità a seguito di una crisi, anche se settoriale o regionale, dilaga per il pianeta, provocando uno tsunami monetario. Di converso, ogni movimento di restrizione monetaria prospettato della Fed provoca movimenti di capitale che, anticipando la rivalutazione del dollaro, destabilizzano molte economie. In futuro in giro per il mondo ci saranno sempre meno dollari e sempre più yuan: ma se gli Usa non potranno più comprare dalla Cina stampando dollari, a chi venderà la Cina? Gli Usa continueranno a comprare, ma per farlo si dovranno indebitare in yuan: è questa la vera rivoluzione.