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 2015  ottobre 19 Lunedì calendario

Tassi ai minimi e "cure dimagranti", in difficoltà le cinque maggiori banche americane. In base ai trimestrali appena pubblicti, la migliore è Bank of America, la peggiore Goldman Sachs

Più piccole e prudenti rispetto ai tempi d’oro pre-crisi 2008, le banche americane stanno vivendo una fase particolarmente delicata. Con il fiato delle autorità finanziarie sempre sul collo, i tassi di interesse ai minimi storici e una debole attività di trading nel reddito fisso, nelle valute e materie prime, il fatturato dei principali gruppi è in calo, i profitti crescono con maggiori difficoltà e in qualche caso sono in netta diminuzione.
Lo si vede dai risultati trimestrali che le cinque top banche hanno pubblicato la settimana scorsa. Dove ci sono stati miglioramenti, è dovuto soprattutto al taglio dei costi, in particolare di quelli legali, strascico delle multe e dei risarcimenti pagati per le responsabilità nel crac di sette anni fa.

Sorprese
La sorpresa più positiva è venuta dalla Bank of America, che nel terzo trimestre 2015 ha ottenuto 4,5 miliardi di dollari di profitti netti contro una perdita di 232 milioni nello stesso periodo di un anno fa, quando aveva dovuto pagare 6 miliardi di dollari per le spese legali ereditate da Countrywide Financial, la finanziaria comprata nel gennaio 2008 e piena di mutui «subprime», la base dei titoli tossici che avevano scatenato il panico sui mercati. Quest’ultimo trimestre le spese legali sono scese a 231 milioni, mentre si sta restringendo l’intera attività della banca nel settore dei mutui più rischiosi. Va avanti insomma l’opera di pulizia di bilancio avviata da Brian Moynihan, amministratore delegato (ceo) dal 2010 e confermato anche presidente lo scorso mese, in una sorta di referendum degli azionisti a suo favore. Pulizia e tagli che non risparmiano i tori – broker, trader e investment banker – di Merrill Lynch, la banca d’affari comprata sempre nel 2008, che quest’anno fatica a macinare profitti.
La peggior delusione è invece venuta da Goldman Sachs, la banca più legata a Wall Street: i suoi profitti sono crollati del 36%, mentre il fatturato è sceso del 6%. A soffrire è stato il trading su reddito fisso, valute e materie prime (-33% di fatturato), non compensato dall’aumento del 9% del fatturato per il trading azionario e nemmeno dagli ottimi affari nelle operazioni di M&A (fusioni e acquisizioni), dove Gs resta il consulente numero uno (+6% di fatturato). «Mi aspetto trimestri migliori sia per me sia per la banca», ha scherzato il ceo Lloyd Blankfein, che ha annunciato recentemente di avere un linfoma curabile e di voler continuare a lavorare. Intanto sta cercando di diversificare il business, sfruttando lo status di banca commerciale” conferitole dal governo nel 2009: erogherà prestiti online con le tecnologie avanzate del fintech.
I prestiti alle aziende produttrici di petrolio e gas naturale sono il punto debole di Wells Fargo, l’unica delle cinque top banche non dipendente dal trading a Wall Street e dall’investimento banking in generale. Una caratteristica che finora aveva giocato a suo favore, nell’epoca post-2008. Ma il suo mestiere di banca tradizionale, che guadagna sulla differenza fra la remunerazione dei depositi e i guadagni sui prestiti, è meno redditizio con la forbice dei tassi (fra attivi e passivi) ridotta al minimo. A questo si è aggiunta la crisi di molte compagnie petrolifere, colpite dal crollo del prezzo del greggio, alle quali Wells Fargo ha aperto importanti linee di credito. La banca guidata da John Stumpf ha visto così rallentare la crescita di fatturato (+3%) e profitti (+2%) e diminuire il ritorno sul capitale (roe, return on equity) dal 13,1% di un anno fa a 12,6%, che resta comunque il massimo fra i cinque gruppi qui analizzati. 
Cambi di pelle
Appena sotto, secondo questa misura di redditività, si piazza JPMorgan Chase, il cui roe è il 12% (le altre tre banche sono lontane, con roe fra il 7 e l’8%). Resta la più grande, ma le sue attività sono calate del 6% a 160 miliardi di dollari, grazie alla cura dimagrante imposta dal ceo James Dimon, preoccupato di semplificarne la struttura e uscire dai business più rischiosi. Dimon spera in questo modo di evitare future penalizzazioni imposte dalle nuove regole finanziarie, per cui le banche devono avere abbastanza fondi per fronteggiare una corsa agli sportelli. In questa direzione vanno gli sforzi per chiudere i conti dei clienti aziendali che rendono poco e niente alla banca ma richiedono che metta da parte molte riserve liquide: questi depositi sono calati di 150 miliardi di dollari quest’anno alla Chase. Mentre il fatturato da trading è sceso del 15% lo scorso trimestre rispetto al 2014 soprattutto a causa della decisione di vendere il business degli scambi sulle materie prime fisiche.
Più piccola e meno rischiosa è anche Citigroup, nelle mani del ceo Michael Corbat da tre anni. Ha detto addio all’idea di essere un supermercato finanziario a 360 gradi, tagliato la rete di agenzie e i costi in generale, ottenendo nell’ultimo trimestre un balzo del 51% dei profitti netti.