Il Domenicale del Sole 24 Ore, 18 ottobre 2015
Jared Diamond spiega com’è facile morire sotto la doccia (o sotto un albero)
L’altra mattina sono uscito indenne da una situazione alquanto pericolosa. No, nessun ladro armato si è intrufolato in casa, né mi sono trovato faccia a faccia con un puma durante una passeggiata di bird-watching. Ciò a cui sono sopravvissuto è la mia doccia quotidiana. Sapete, le cadute sono una causa di morte comune per le persone anziane come me (ho 75 anni). Fra i miei amici e quelli di mia moglie, nostri coetanei, per cadute sui marciapiedi uno è rimasto invalido a vita, un altro si è rotto una spalla e un altro ancora una gamba. Un amico è ruzzolato giù dalle scale e un altro potrebbe non sopravvivere ad una recente caduta. «Ma dai!» potreste esclamare. «Quante probabilità ho di cadere nella doccia? Una su mille?». La mia risposta è: forse, ma non è neanche lontanamente una buona casistica. L’aspettativa di vita per un americano della mia età, in buona salute, è di circa 90 anni (da non confondere con l’aspettativa di vita di un americano alla nascita, che è solo di 78 anni). Se davvero raggiungerò la mia quota statistica di altri 15 anni di vita, significa che mi aspettano circa 365 per 15, ovvero 5.475 docce giornaliere. E se non mi importasse che il rischio di scivolare nella doccia ogni volta sia di una probabilità su 1000, morirei o diventerei invalido circa cinque volte prima di raggiungere la mia aspettativa di vita. Devo quindi ridurre il rischio di incidenti nella doccia a molto, molto meno di uno su 5.475. Questo calcolo mette in pratica la lezione più importante che ho imparato in cinquant’anni di lavoro sul campo nell’isola della Nuova Guinea: la crucialità di essere vigili nei confronti di quei pericoli che sono a basso rischio ogni singola volta ma che si ripetono frequentemente. Ho scoperto questo atteggiamento di fronte ai rischi da parte degli abitanti dell’isola durante un’escursione nella foresta, quando mi proposi di piantare le tende sotto un albero bellissimo e molto alto. Con mia sorpresa, gli amici guineani si rifiutarono categoricamente, spiegando che l’albero era morto e avrebbe potuto caderci addosso. Sì, dovetti convenire che era effettivamente morto, ma obiettai che era così solido da poter restare in piedi per molti anni ancora. I guineani non si persuasero affatto e preferirono dormire all’aperto senza tenda. Pensai che le loro paure fossero davvero esagerate, tendenti alla paranoia. Negli anni successivi, però, mi sono reso conto che ogni notte che mi accampavo nella foresta della Nuova Guinea sentivo crollare un albero. E quando feci un rapido calcolo della frequenza del rischio, capii il loro punto di vista.
Pensateci: se siete un guineano che vive nella foresta e prendete la cattiva abitudine di dormire sotto agli alberi, le probabilità che ve ne precipiti addosso uno in una notte in particolare sono solo uno su 1000 eppure morireste entro pochi anni. In effetti, mia moglie è stata quasi uccisa dalla caduta di un albero l’anno scorso e io sono scampato a diverse situazioni analogamente fatali in Nuova Guinea. Ora, quindi, considero l’atteggiamento iper-vigile dei guineani verso i tanti e ripetuti piccoli rischi come una «paranoia costruttiva»: una paranoia apparente che in realtà è assai razionale. Avendola adottata anch’io, adesso esaspera molti dei miei amici americani ed europei. Tre di loro tuttavia, che hanno a che fare in prima persona con paranoie costruttive – un pilota di piccoli aerei, una guida sulle rapide e un poliziotto londinese che pattuglia le strade disarmato – hanno appreso quell’atteggiamento come ho fatto io, cioè assistendo alla morte di persone indifferenti a quei rischi. I guineani tradizionali devono tenere molto in considerazione i pericoli perché non hanno dottori, poliziotti o pattuglie del 911 che possano salvarli. Di contro, il pensiero degli americani sul pericolo è assai confuso: siamo ossessionati dalle cose sbagliate e perdiamo di vista i rischi reali.
Alcuni studi hanno confrontato la scala di pericolo percepita dagli americani con quella dei pericoli effettivi, misurati o attraverso esempi di incidenti realmente occorsi o con i dati e le stime sugli incidenti evitati. Ne è risultato che esageriamo la percezione del rischio di eventi al di fuori del nostro controllo, che potrebbero causare molti decessi in una volta sola o uccidere in modi spettacolari – pistoleri impazziti, terroristi, disastri aerei, radiazioni nucleari, colture geneticamente modificate. Allo stesso tempo, sottovalutiamo i pericoli degli eventi che possiamo controllare («Non potrebbe mai capitare a me, io sono prudente!») e di quelli che uccidono in modo banale, comune. Avendo imparato sia da questi studi che dai miei amici della Nuova Guinea, sono diventato costruttivamente paranoico riguardo a docce, scale a pioli, scalinate e marciapiedi bagnati o sconnessi – proprio come i mie amici guineani lo sono a proposito degli alberi morti. Mentre guido, sono sempre all’erta per evitare miei possibili errori (soprattutto di notte) e per prevenire ciò che altri guidatori incauti potrebbero fare. La mia iper-vigilanza non mi paralizza né limita la mia vita: non salto la doccia mattutina, continuo a guidare la macchina e a tornare in Nuova Guinea. Tutte queste attività pericolose mi piacciono. Cerco solo di pensare sempre come un guineano e di mantenere il rischio di incidenti ben al di sotto di quell’uno su 1000, ogni volta.