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 2015  ottobre 18 Domenica calendario

Ecco come nacque la Olivetti Programma 101. Il primo pc della storia nacque una domenica mattina del 1963, quando il Canavese era la Cupertino di oggi

Ci sono svolte che avvengono la domenica mattina. Basta una telefonata, e qualcosa di importante succede. La Programma 101, universalmente riconosciuta come il primo personal computer, il primo pc della storia, è nata nel suo design proprio una domenica mattina. Era l’autunno 1963 e al mio telefonone di casa (non c’erano i telefonini) ricevo una chiamata da Roberto Olivetti – il Ceo dell’omonima società – che con aria misteriosa mi chiede di raggiungerlo nella sua abitazione di Milano, in piazza Castello. E di tenere riservata la faccenda…
Risiedevo vicino e in quella domenica sonnolenta arrivo a destinazione in pochi minuti. Là vi trovo, nel mezzo di una riunione “carbonara”, anche l’ingegnere Piergiorgio Perotto. Eravamo solo in tre. Davanti a noi una strana maquette di macchina per ufficio mai vista (pure a me, già travolto da un imprevisto successo nel mondo del cosiddetto nascente design, e da pochi mesi nominato anche consulente responsabile sempre per il design nella celebre Olivetti, la Apple di oggi, per intenderci). Quella maquette è il primo tentativo, mi sento dire, affidato all’architetto Marco Zanuso per dare un corpo compiuto alla Programma 101, rivoluzionaria unità da calcolo. Del nome mi dicono che 101 suona davvero bene in inglese: uan-o-uan. Canta. E l’intento, in effetti, è di presentarla a New York nell’ottobre del 1965. Esattamente 50 anni fa, il 23 ottobre.
Ma perché chiamano me di domenica mattina nell’autunno 1963? La soluzione proposta da Zanuso, interpellato per primo, pur intelligente e interessante, non convinceva perché basata sull’idea di un volume verticale a colonna con la tastiera a sbalzo sulla sommità. Un volume che poteva in alternativa essere dislocato sul piano della scrivania ruotando la tastiera in linea con il corpo e il piano stesso. Roberto Olivetti e Piergiorgio Perotto mi spiegano che, in effetti, il loro obiettivo di marketing, grazie a una innovativa miniaturizzazione progettuale, tendeva a ottenere uno stupefacente risultato: una complessa e sofisticata nuova unità da calcolo contenuta in una macchina “da tavolo”. Non quindi in una macchina con le sembianze di una work station da terra. Interpellato al riguardo quella stessa mattina dichiaro con una punta di giovanile entusiasmo e incoscienza che «si poteva fare». Chiedo un po’ di tempo e tutte le necessarie documentazioni. 
A dire il vero, avevo già intuito quella stessa mattina a casa di Olivetti, una via d’uscita. Pochi giorni dopo ricevo a Ivrea, dove avevo organizzato un poderoso team di progettazione, tutto il materiale per reinventare il disegno della nuova P101. E mi metto al lavoro. A Ivrea in quegli anni giovanili praticavo – a intermittenza – una appassionata attività di ricerca e sviluppo in una sede messa a mia disposizione da Olivetti che aveva un soprannome “storico”: il Porcile, il luogo dove prima si allevavano i maiali e ora, al tempo dei Beatles, degli Scarafaggi, c’eravamo noi. Noi che eravamo da un lato della strada, e che di fronte vedevamo la mega sede Olivettiana, l’headquarter a stella degli architetti Bernasconi, Fiocchi e Nizzoli (1963). Con me una schiera di fedelissimi, tecnici e specialisti: un team di cinquanta con molti numeri uno (della 101). 
Ancora oggi ricordo come fosse ieri la scena di me stesso al lavoro con un camice bianco (per non sporcarsi) con gli strumenti e i materiali per modellare attorno a un esemplare al vero di quella che diventerà la P101. Sono davanti a un tavolo professionale da scultore, regolabile e rotante con un piano in ardesia e con un reticolo inciso a quadri misuratori. Lo conservo tuttora come un totem della creatività. Su quel tavolo lavoro un materiale pop e una materia “sacra”: plastilina e creta. Allora non c’era Autocad, non c’erano software per realizzare i render e tantomeno le stampanti in 3D per produrre modelli al vero…
Per me la P101 è la conferma di una stagione felice con Olivetti, anche se il Compasso d’Oro, il secondo della mia vita, lo ricevo per la CMC7, marcatrice magnetica per assegni sempre di Olivetti, nel 1964. L’inizio di quella che sarà una lunga e intensa collaborazione con l’azienda di Ivrea per la quale mi trovo coinvolto anche in alcune iniziative culturali. Una collaborazione che mi richiedeva di fare la spola in auto da Milano, più volte la settimana – prima con una Giulia dell’Alfa Romeo, poi con la straordinaria DS 24 (lo Squalo) della Citroën – per lavorare in stretto contatto con i progettisti. Ero certo che solo lavorando in squadra con loro avrei potuto raggiungere alti livelli di innovazione e invenzione, soprattutto in quegli anni di rapida evoluzione della nuova tecnologia informatica. Così è stato e dopo la P101 sono nate oltre un centinaio di macchine, molte delle quali senza precedenti: tra le più importanti la Logos 50/60, la Divisumma 18, il TCV 250; l’ultima, il Quaderno, del 1992. Denominazioni talvolta gelide, allora in uso nelle aziende che battezzano, però, macchine frutto di ingegno, passione, disegno.
Steve Jobs viene a trovarmi in studio a Milano nel mezzo di quegli anni. Era venuto ad ascoltarmi a una lecture (memorabile per me) ad Aspen e mi invita a disegnare in esclusiva per lui nella sua seconda avventura con Apple. Io, però, preferisco proseguire il mio percorso come consulente indipendente. Libero, autonomo e sazio di design (anche grazie alla mostra al MoMA dedicata a me nel 1987). E pronto a voltare, sempre una domenica mattina… Questa volta, ormai, sempre più coinvolto e travolto dall’architettura.
Certo la storia ha deciso altro per l’Olivetti: che fine ha fatto tutto questo mondo? L’Ivrea di allora è scomparsa, era la Cupertino di oggi con un tocco in più: la passione per la cultura, non solo e non era poco quella “aziendale” ma la cultura a tutto campo che vedeva riuniti attorno alla nozione di «civiltà delle macchine» i migliori intellettuali e artisti del tempo – Giovanni Giudici, Marcello Nizzoli, Erberto Carboni, Paolo Volponi, Bruno Munari, Renzo Zorzi, Giorgio Soavi, e altri – li avrei mai incontrati negli Usa?
Ricordo anche come fosse tangibile allora, la consapevolezza che progettare e soprattutto disegnare una macchina – come ci si aspettava che si dovessero disegnare allora – erano ogni volta «atti di cultura», destinati a incidere sulla civiltà del lavoro d’ufficio, a contribuire allo sviluppo della sua storia. Alla nostra storia.