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 2015  ottobre 18 Domenica calendario

L’Italia del ceto medio che parte, il difficile ritorno dei cervelli in fuga e Milano, la Silicon Valley nostrana. Tre lettere (con risposta) al Direttore del Sole 24 Ore

Caro direttore,
grazie per il suo colloquio in the sky con i due giovani chirurghi “tornati per un po’”(Memorandum dell’11 ottobre «L’Ospedale di Bristol e il cielo di casa»). Ho accompagnato sabato scorso mio figlio a Bath per il suo primo anno di Università. E l’ho fatto con animo non lieto. Come se stessi perpetrando un furto a questo Paese e anche a me stesso o almeno alla mia esperienza di vita. Tornerà mio figlio come forza lavoro a Itaca-Italia? O troverà, tra università e master, una diversa “cittadinanza” nel vasto mare dove non si parla italiano? Il suo incontro-riflessione mi ha confortato un poco. Si può tornare con amore (amore come in quel vecchio film di 007...). O meglio: si può”restare” qui, lavorando lontano. Il tempo, nel mio caso, lo dirà. Certo vi è una differenza profonda tra questa Italia e quella dei nostri padri. Ed è proprio in questi viaggi. Prima, era l’Italia “proletaria”, la “umile” Italia a partire. Ora è invece l’Italia del ceto medio, del ceto “riflessivo”. Com’è stato possibile questo cambiamento? Dove e quando abbiamo sbagliato (se è uno sbaglio)? Ecco il rimorso, tornando da Bath. 
Andrea De Marchis
 
Gentile direttore, 
nel Memorandum «L’ospedale di Bristol..», la descrizione dell’ambiente di lavoro in chirurgia plastica in UK è molto didattica (incluso il fatto – ignorato dai più – che bisogna lavorare duramente, assai più che in Italia) e fotografa quanto avviene abitualmente nei paesi anglosassoni. Sono un medico neurologo attualmente in pensione che ha trascorso periodi di lavoro all’estero (Francia, UK, USA, Canada) ma ha sempre lavorato negli ospedali italiani (centro Italia). Oltre agli aspetti citati nell’articolo, che ostacolano il rientro dei “cervelli in fuga” in Italia, ne esiste uno assolutamente importante e che abitualmente non viene citato nei dibattiti sull’argomento (e nemmeno nell’articolo in oggetto): la retribuzione! Un giovane medico assunto in ospedale in Italia oggi guadagna circa 2.200-2.400 euro al mese. In UK probabilmente più del doppio. E lo stesso vale per le posizioni apicali (i cosiddetti Primari). A titolo esemplificativo, in Germania un Primario chirurgo guadagna tre volte quanto guadagna il collega pari funzione in Italia. In Francia, almeno il doppio. Lasciamo stare gli USA, perché è proprio un altro mondo. Questa situazione nel mondo della Medicina si riproduce anche per altre discipline scientifiche e/o nel mondo accademico. Conclusione: per attrarre talenti in Italia bisogna non solo offrire una organizzazione del lavoro moderna ed efficiente ma anche retribuzioni che siano comparabili a quelle di altri paesi del mondo civile (non basta garantire un trattamento fiscale privilegiato per un paio di anni...). 
Aldo Ragazzoni
 
Egregio direttore,
L’articolo di domenica 11 ottobre è stato veramente toccante. Ho due figlie tredicenni che frequentano la terza media. Mi ritrovo spesso a pensare che, finito il percorso scolastico, potrebbero seguire l’esempio di Luigi e Giulia e andare all’estero a lavorare, come pure avevano fatto i miei genitori negli anni ’60 (avevano una gelateria in Germania) ed io in qualità di loro figlia fino ai miei vent’anni (frequentando le scuole in Italia e facendo le vacanze in Germania nel periodo pasquale ed estivo). Se da una parte risulta difficile per i genitori pensare di avere lontano dei figli, concordo pienamente sul fatto che stare all’estero per un periodo di tempo, non solo apre la mente ma ci si rende conto di altre realtà e culture diverse oltre che acquisire competenze che ti permettono poi di rientrare in Italia ed avere quel valore aggiunto da essere competitivo in ambito lavorativo. Per cui, il mio vuol essere un appoggio a quello che diceva lei, «i ragazzi vanno dove credono di poter vivere e lavorare meglio» sperando che in Italia si possa tornare a vivere e lavorare meglio. 
Fiorella Bertolini
 
Prima era l’Italia proletaria, la “umile” Italia, a partire. Ora è invece l’Italia del ceto medio, del “ceto riflessivo”. Questa affermazione di Andrea Marchis mi ha colpito e merita di essere segnalata perché fotografa, a suo modo documenta, il declino dal quale questo Paese deve assolutamente risollevarsi e descrive come meglio non si potrebbe due capitoli decisivi della storia italiana. L’Italia “umile” a volte risaliva lo Stivale a volte prendeva la strada della Germania o dell’America, lasciava un Paese distrutto, piegato dalla guerra e dalle macerie della povertà, ma che aveva in sé i germi del dopoguerra e della ricostruzione, un desiderio di riscatto, la convinzione che solo la fatica ci avrebbe restituito un futuro. Un Paese, soprattutto, pervaso da uno spirito buono e contagioso che tagliava ceti sociali e territori perché tutti, proprio tutti, morivano dalla voglia di far capire al mondo di che pasta sono e che cosa sono capaci di fare gli italiani. La storia ci insegna che intelligenza tecnica, riformismo cattolico e cultura laica si intrecciarono positivamente, politica, produzione e sindacato fecero bene la loro parte, insomma furono tutti all’altezza e tutti insieme trasformarono un Paese agricolo di secondo livello, prima in un’economia industrializzata, poi in una potenza economica. 
Oggi i nipoti di quei padri fondatori e ricostruttori, che appartengono alle famiglie del ceto medio italiano, prendono sempre più spesso la strada degli studi e del lavoro fuori dell’Italia. Lo fanno per mille motivi, alcuni dei quali assolutamente giusti perché un bagaglio internazionale di conoscenze è oggi irrinunciabile per chi vuole competere in un mondo globalizzato dove gli effetti di questa globalizzazione si sentono in casa, in fabbrica o in una bottega artigiana, ma lo fanno anche, ed è questo il punto critico di riflessione, perché l’Italia del miracolo economico si è progressivamente trasformata nell’Italia delle rendite e del debito pubblico dove tutte le diseguaglianze si intrecciano e si cumulano, si smarrisce la sana cultura delle regole e del merito, tutto e il suo contrario sono possibili, talento e laboriosità civile convivono con un tasso diffuso di corruzione e una complicazione burocratica insopportabili. Un Paese che ha perso un quarto della produzione e ne ha almeno un altro quarto che combatte ogni giorno per la sopravvivenza, potremmo dire un’altra Italia, almeno diversa da quella nella quale si è formato quel ceto medio.
Mi vengono in mente le riflessioni di qualche tempo fa quando si aveva la netta sensazione che stesse succedendo a Milano con Londra e Francoforte quello che prima era accaduto a Napoli e a Palermo con Milano, ci si cominciava, cioè, a sentire periferia. Oggi per Milano non è più così perché vive una stagione di rinascita civile e economica giocata in casa e sul terreno della globalizzazione. Ma perché anche a Milano torni a nascere un nuovo Giulio Natta, che inventò il polipropilene isotattico, le vaschette di plastica della Moplen, e cambiò la vita degli italiani, bisogna smetterla con i luoghi comuni del tipo le imprese italiane non fanno innovazione (è vero in molti casi l’esatto contrario) e si devono compiere scelte forti, ineludibili. Che cosa si aspetta a varare un vero credito d’imposta per chi fa ricerca e innovazione e a seguire l’esempio inglese per le startup in materia fiscale? Facciamola la nostra Silicon Valley nell’area dell’Expo e regaliamo a Milano e ai suoi giovani di talento che appartengono all’intero Paese un luogo dove si scambiano saperi e si costruiscono pezzi di futuro, torniamo a dare forza alla rete di eccellenze del sistema milanese-lombardo (esiste) aiutandola a mettere insieme università e aziende, grandi e piccole: fu questa la medicina che curò la malattia, fece rialzare e correre l’Italia del miracolo economico. Smettiamola con qualunquismi da quattro soldi che ci impediscono di pagare come meritano i nostri giovani di valore e di dare loro quel “luogo vitale” dove impresa, scuola e università si incontrano, libere dai fardelli di una burocrazia ossessiva, e possono così rendere finalmente consapevole la scelta di iniziare un percorso di studi, di lavoro e di vita in casa o fuori. Perdere oggi il momento buono dei nuovi germogli di una ripresa possibile, frutto di una congiuntura internazionale a noi favorevole e di un’azione faticosa di riformismo sul piano interno, per inseguire magari consensi elettorali a breve o piegandosi a semplicismi di troppo, sarebbe un delitto. Non ce lo possiamo permettere come padri, soprattutto non ce lo perdonerebbero i nostri figli.