il Fatto Quotidiano, 19 ottobre 2015
Dai primi giri su un pulmino scassato all’avventura di Sanremo, fino alla consacrazione di San Siro: intervista ai Negramaro, primi in classifica con "La rivoluzione sta arrivando". Giuliano Sangiorgi, cantante e autore: "So di essere brutto, e non me ne frega niente. Sono felice di non avere avuto mai il dubbio che il mio successo fosse legato alla bellezza"
Un pulmino scassato con il quale non superare gli ottanta chilometri orari, “dovevamo risparmiare su tutto, i 120 non ce li potevamo permettere. Se qualcuno osava spingere sull’acceleratore, erano schiaffoni sulla nuca”; le polpette al pomodoro delle mamme pronte nei contenitori di plastica, altro che Autogrill; nel proprio repertorio i cantautori italiani, Lucio Battisti in primis, poi i propri brani da portare in giro. Da far ascoltare. Da far crescere, serata dopo serata. Certi della strada da percorrere, in direzione ostinata, non per forza contraria, anche se si parte da un paesino microscopico del Salento, anche se i talent musicali ancora non esistevano, “e si è brutti. Perché io sono brutto”, spiega Giuliano Sangiorgi, testo e voce dei Negramaro, primi in classifica con La rivoluzione sta arrivando, “davanti ad artisti perennemente in Tv, sostenuti da battage considerevoli”.
Ora non mi dica che siete stupiti…
Ma è così! Pubblicare un disco come questo è già una rivoluzione: noi ci sentiamo legati ancora alla cantina nella quale abbiamo iniziato, un locale sotto la casa di Ermanno (bassista del gruppo), circondati da bottiglie di negramaro e primitivo. Siamo fuori da ambiti iper promozionali. Eppure abbiamo l’attenzione del pubblico: è una figata da far festa tutta la vita.
Secondo Gramsci non c’è niente di più rivoluzionario della verità.
(Interviene Emanuele “Lele” Spedicato, chitarrista) La nostra è una verità costruita su sei storie di vita, sulla verità di sei ragazzi che hanno iniziato a fare musica con l’obiettivo di girare il mondo, e girare il mondo per suonare. E siamo pure rimasti liberi. L’altro giorno una ragazza ci ha chiesto: “Quanto influenza il commercio nella realizzazione di un disco”. Ecco, per noi non esiste, anche grazie a Caterina (Caselli, loro produttore): che ci ha sempre lasciati liberi sia nei testi che nelle scelte di arrangiamento.
Siete andati a Sanremo, il massimo del business.
(Giuliano) Ma con il nostro imprinting, la nostra storia: quando abbiamo deciso di confrontarci con il grande pubblico, potevamo scegliere un brano semplice, una ballata, invece ci siamo presentati con la canzone più rock, Mentre tutto scorre, della serie: o la va o la spacca.
Una sola serata sul palco e il Premio della critica.
Siamo durati quattro minuti, il tempo di cantare, riscuotere il premio, farci conoscere e addio. Ma è andata. E quell’esperienza ci ha regalato la libertà del dopo.
Eravate tutti d’accordo nella partecipazione?
Sì, nonostante lo stupore della casa discografica, ma è andata bene. Anche perché vi rendete conto? Ci siamo presentati con una canzone così, e con un cantante brutto…
Ancora la bruttezza.
Non me ne frega niente, e sono felice di non avere avuto mai il dubbio che il mio successo fosse legato alla bellezza.
In questo album avete lavorato con Mauro Pagani, uno dei più grandi musicisti italiani.
Ora è pure un amico, prima era un mito. Ci ha confessato di aver invidiato la nostra esperienza di Parma, quando per anni abbiamo vissuto tutti insieme in un casolare: era il suo sogno ai tempi della Pfm.
Ha realizzato gli archi per un brano molto intimo.
Lo sai da qui, l’ho scritta dopo la morte di mio padre. Quando l’ha sentita si è emozionato, ha pensato a un brano di De Andrè, sempre dedicato al padre deceduto.
Anche “Il posto dei santi” è per suo padre.
È dopo aver scritto questi due brani che ho avuto l’impulso di realizzare un disco pieno di vita, è come se fosse diventato un antidoto al dolore, è come se tu fornissi la malattia e il vaccino.
Lei si è formato sulle canzoni di Lucio Dalla. Brani che le faceva ascoltare suo padre.
Tre mesi dopo la sua morte ero a Bologna per celebrare Lucio a un anno dal suo addio. Dovevo cantare ed ero distrutto, credevo di non riuscirci.
Com’era suo padre?
Di sinistra, detestava gli angeli e i democristiani, amava la terra, le gambe, non chi pensava di volare. Amava chi sapeva sporcarsi di vita. Amava parlare e farsi ascoltare. Ora è dentro di me, è così dentro che non mi manca più. Non mi fa neanche male dirlo. E quando mi guardo vedo lui.
Giuliano Sangiorgi da bambino.
Il sabato pomeriggio indossavo la chitarra e fingevo di essere Bono o The Edge degli U2. Cantavo Rattle and hum. Poi amavo e amo i robot, da piccolo volevo diventare un transformer. Anzi, prima o poi mi piacerebbe incidere una sigla dei cartoni animati. (Suona il cellulare. Lele lo prende. Lo guarda. Poi chiama l’attenzione di Giuliano: “C’è un messaggio video di Lorenzo”. È Jovanotti che festeggia il loro primo posto in classifica).
Uno come Jovanotti sarebbe stato notato in un talent?
Ci sono certi artisti in grado di uscire fuori comunque. E Lorenzo è un fuoriclasse.
I vostri inizi…
(Lele) Concorsi e festival canori.Ogni volta che arrivavamo sul posto, scattava in noi una sorta di complesso: tutti avevano manager, accompagnatori, strutture. Noi soli. Eppure vincevamo, compreso un appuntamento lanciato da Red Ronnie con più di quindicimila iscritti.
Tutto cambia con “Mentre tutto scorre”.
(Giuliano) Per niente: per crescere ancora, ogni entrata economica era investita nel gruppo; per vivere chiedevamo soldi a casa nonostante fossimo al numero uno in classifica.
Dopo appena cinque anni avete conquistato San Siro.
(Lele) Vuole sapere com’è nata l’idea? Durante una cena, un bicchiere di vino. Quando l’abbiamo proposto alla nostra agenzia, sono rimasti immobili, ho visto un brivido di terrore nei loro occhi.
L’incoscienza è fondamentale.
(Giuliano) Sì, però ogni volta che devo salire su un palco, fino a un minuto prima, vorrei scappare. Poi passa. (Lele: io dormo, mi viene il sonno).
Quando Vasco scende dal palco vuole il silenzio…
Noi per mezz’ora stiamo insieme, cerchiamo di riassestare le nostre teste, perché la scarica di adrenalina è incredibile, e va dominata. Soprattutto quando sei in tournée devi dormire, devi mantenere un ritmo, altrimenti crolli.
Sbugiardata la regola: sesso droga e rock n’ roll.
Il rock è un’attitudine, negli anni Settanta era contro, oggi il faro si è spostato. Oggi deve raccontare altro, non può essere soltanto contro, deve trovare altri contenuti, altra sostanza.
Quanti provini vi arrivano?
(Lele) Tantissimi, e li ascoltiamo tutti. Lo sa che all’inizio pensavamo di dover cercare un cantante?
Sembra una storia per creare una leggenda.
No, è assolutamente vero, ed era Giuliano a insistere, lui pensava a scrivere e suonare solo la chitarra.
Fino a quando?
Ascoltavo le sue canzoni, e pensavo: “Solo lui le può cantare”. Erano sue, nate da lui, con lui, dalla sua testa, il suo stomaco, il suo cervello. Dalla sua visione. E lo vedo anche oggi quando i ragazzi portano i nostri pezzi nei talent: chi prova a interpretare i brani dei Negramaro, cade in pessime esibizioni.
Chi le ricorda Giuliano?
Se lo dico si schermisce, ma Lucio Battisti. La sua voce e il suo stile hanno determinato il nostro sound.
Cosa avrebbe cantato in un talent?
(Giuliano) Sinatra… (silenzio). Anzi no, Lucio Dalla: Come è profondo il mare mi ha strappato via la pelle.
Babbo, che eri un gran cacciatore, di quaglie e di fagiani, caccia via queste mosche, che non mi fanno dormire, che mi fanno arrabbiare… cantava Dalla. E magari da bambino la intonava in macchina insieme a suo padre.