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 2015  ottobre 19 Lunedì calendario

Palazzi fatiscenti, immondizia e motorini: viaggio a Shatila, campo profughi di Beirut dove in un chilometro quadrato vivono 25 mila palestinesi, senza diritti e con leggi proprie. E ai ragazzini per distrarsi ed evitare il peggio non rimane che giocare a pallone

Quello che non manca nel capo profughi di Shatila sono motorini e immondizia. Ciò che invece servirebbe è elettricità costante, acqua corrente e cure mediche. Bambini corrono guidando sgangherati ciclomotori senza targa o trascinando i bottiglioni d’acqua filtrata che spostano in fretta da una parte all’altra di questo non-luogo.
A Shatila, noto – anche se poco ricordato – per il massacro compiuto nel settembre 1982, i rifugiati lo sono da tre, a volte quattro, generazioni rimanendo quindi stranieri senza alcun diritto sociale (men che meno doveri) e impossibilitati anche a trovare un lavoro regolare, proprio in quanto tali.
Oltre i confini di quel chilometro quadrato sovraffollato da circa 25mila palestinesi, ci sono i vicini omonimi provenienti da ogni parte. Siriani, curdi, iracheni, bengalesi: un melting pot che all’alba si riversa nella strada principale dove ad attenderli ci sono i camioncini dei caporali che poi li smisteranno in luoghi in cui c’è bisogno di braccia, in nero a bassissimo costo e senza nessuna pretesa.
Solo un anno fa le autorità libanesi hanno ristretto l’accesso agli immigrati, per lo più siriani: il Libano ne ospita oltre un milione a fronte di una popolazione di circa 4 milioni e mezzo. In questo paese, vasto come l’Abruzzo, una persona su 5 è rifugiata di guerra.
Il campo profughi di Shatila rappresenta un universo a parte per il suo significato storico, politico e del Libano stesso reso più complicato anche dalla fragile coalizione tra partiti sunniti e sciiti che governa il Paese, esasperata dalle rivalità interne, aggravata dal conflitto siriano.
Shatila è un lembo di terra in cui oltre la metà degli abitanti vive in una stanza insieme ad almeno altre 6 persone, a volte anche 10. I palazzi fatiscenti sembrano toccarsi verso il cielo: di anno in anno vengono costruite nuove stanze in altezza facendo quasi pendere le costruzioni. Grovigli di cavi elettrici si intrecciano tra una casa e l’altra accanto a tubazioni che lacrimano acqua sporca.
Nel campo non vige la legge libanese in quanto l’ordine pubblico viene esercitato da un comitato interno, formato dalle diverse componenti politiche, che si occupa – a rotazione più o meno settimanale – della sicurezza: nulla di ciò che accade all’interno di Shatila esce da Shatila.
Pare non esserci differenza con qualsiasi altra bidonville. “La differenza è il diritto di ritorno di tutta questa gente”, risponde Farshid Nourai, coordinatore nazionale dell’Associazione per la Pace che sostiene l’ong Children & Youth Center – Cyc diretta da Mahmoud Abbes (per tutti Abu Mojahed).
Abu è un po’ fratello maggiore, a volte anche genitore, di tutti i ragazzini che scelgono di convergere nell’unica ristretta area comune dove possono giocare a calcio. Il progetto “Sport in Shatila” favorisce la diffusione dello sport come ultimo tentativo per migliorare la condizione dei minori in termini di coesione sociale e controllo degli impulsi aggressivi favoriti dalle situazioni di forte stress psicologico. Da 3 anni inoltre il progetto si è arricchito della collaborazione dell’Aiac (Associazione Italiana Allenatori Calcio) che organizza un corso di formazione al calcio rivolto ai mister dei 18 club sorti nel campo stesso che si contendono ben due campionati distinti.
In ogni caso le giornate sono trapanate dal rumore dei clacson dei motorini ed è forse questo l’unico modo, per i bambini di Shatila, di far sentire che esistono.