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 2015  ottobre 18 Domenica calendario

Il Filadelfia, in diecimila per vedere la posa della prima pietra. Lo stadio del grande Torino, abbattuto nel 1997, diventerà un nuovo centro sportivo della squadra

Diciotto anni e tre mesi. Tanto è durato lo stato di morte apparente. Seimilaseicentosessanta giorni di funzioni vitali ridotte al minimo, con sporadiche rianimazioni grazie alla gente che, tra due piccoli ruderi semisbriciolati di tribune sopravvissute, ripuliva dalle erbacce quel campo sotto cui non ha mai smesso di battere un cuore granata grosso così. Ieri erano in diecimila su quel prato, per far festa, certo, ma soprattutto per vedere con i propri occhi qualcosa a cui molti avevano smesso di credere: la posa di una nuova prima pietra, 89 anni dopo la prima inaugurazione. Aquanto pare, infatti, il “Fila” sta per rinascere davvero.
No, non sarà un nuovo stadio a Torino. Lo hanno capito tutti, anche chi non tifa Toro e chi odia il calcio. È qualcosa di molto di più del calcio e del tifo. Oggi, con un termine va tanto di moda, si direbbe “bene comune”.
Il Filadelfia è stata la casa del Toro dal 17 ottobre 1926 quando un primo Torino grande (non ancora Grande Torino) battè 4-0 la Fortitudo Roma. Quel Torino, nel 1927 e nel 1928, avrebbe vinto i primi due scudetti della bacheca granata (di cui uno, il primo, revocato per una storia che la mitologia del tifoso vuole mai del tutto chiarita). Su quel prato e tra quelle tribune, che potevano ospitare fino a 30 mila spettatori e più, il commendator Ferruccio Novo costruì il capolavoro del Grande Torino, capace di vincere cinque scudetti di fila dal 1943 al 1949 e di non perdere mai per cento partite consecutive giocate in casa.
Era un pubblico esigente quello del Grande Torino. Le foto d’epoca mostrano curiosamente spalti spesso non gremiti, fatta eccezione per le partite di cartello. Era un pubblico molto esigente se è vero, come raccontano le cronache, che il 2 maggio 1948 Valentino Mazzola quasi scavalcò la recinzione (il pubblico era lì, a un passo dal campo) per litigare con un tifoso che accusava la squadra di scarso impegno. Per la cronaca, quella partita contro la malcapitata Alessandria finirà 10-0, ancora oggi il più largo successo della storia del campionato italiano.
Era così capitan Valentino: nel parterre sotto la tribuna in legno non mancava mai il ferroviere Bolmida, che a un certo punto della partita sfoderava la sua tromba e suonava la carica. Capitan Valentino, a quel suono, si rimboccava le maniche. Leggenda vuole che nel quarto d’ora successivo (“il quarto d’ora granata”) non sia mai mancato il gol.
Le tribune del Filadelfia straboccheranno di pubblico soltanto a partire dagli Anni 50, dopo quel maledetto 4 maggio 1949 quando il terrapieno della Basilica di Superga inghiottì l’aereo degli “Invincibili”. È quegli anni – anni di un Torello ruspante, popolare, povero e tenace nel perenne ricordo della Tragedia – che forse scoppia quell’amore così particolare tra un colore, una parte di città e la sua casa. Il Torino giocherà al Fila fino al 1963 (una sola parentesi al Comunale, casa Juventus, nel 1958/59, finita – guarda caso – con la prima retrocessione in B della storia) in tempo per vedere un nuovo Toro d’alta classifica e un futuro Pallone d’Oro, Denis Law. Poi il trasloco, definitivo, al Comunale, distante pochi isolati. Ma il Fila ha continuato ad essere la casa. La casa di Gigi Meroni, di Gustavo Giagnoni l’allenatore comunista col colbacco, del sergente di ferro Gigi Radice e dei suoi undici campioni del 1976, di Sergio Vatta, il mago delle giovanili. E di don Aldo Rabino, il cappellano salesiano, punto di riferimento per i ragazzi delle giovanili. Se n’è andato da poco, ed l’unica nota di malinconia della giornata.
Le porte del Fila erano sempre aperte, per gli allenamenti e per le partite della Primavera. C’era sempre qualche pensionato pronto a raccontarti del Grande Torino o di quel derby del ‘57 quando Armano, Jeppson, Arce e Tacchi schiantarono la Juventus di Boniperti di fronte a un muro di 35 mila persone.
Le porte si sono chiuse nel 1994, grazie all’allora presidente Calleri che, per scongiurare un fallimento, desertificò il desertificabile. Poi, nel 1997, le ruspe e uno stillicidio di mirabolanti progetti di ricostruzione e promesse mai mantenute. E non è un caso che la morte apparente del Filadelfia sia coincisa con il periodo più buio della storia del Toro. E non è un caso che si sia tornati a respirare proprio quanto stava davvero per rinascere. Ora sarà uno stadio da 4.000 posti (8 milioni di euro messi da Regione, Comune e Urbano Cairo) per gli allenamenti, il museo e probabilmente la sede sociale. Inaugurazione – si spera – tra un anno, a 90 anni da quel 1926: “Mi piacerebbe dare il calcio d’inizio”, ha detto ieri Paolino Pulici, che per i tifosi del Toro è come dire il Messia. Se quel momento arriverà, toccherà sicuramente a lui.