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 2015  ottobre 19 Lunedì calendario

Parla Margot Wallström, potente ministra degli Esteri svedese, paladina dell’etica neofemminista, che attacca Putin, riconosce la Palestina e impedisce la vendita di armi a Riad

Stoccolma.
«Io sono pragmatica, punto ai risultati nella diplomazia internazionale. Ma credo in un nuovo approccio, etico e neofemminista. Condizione e diritti della donna sono barometro e tornasole dei singoli paesi e del mondo, difenderli secondo me è nell’interesse strategico svedese europeo e globale. Non temo chi sfido, anzi sfido per dialogare». Così Margot Wallström, socialdemocratica, la coraggiosa, potentissima ministra degli Esteri svedese, spiega il suo credo. Sfida tutti: riconosce la Palestina, blocca contratti di miliardi per armi svedesi a Riad in nome dei diritti umani e delle donne, annuncia il riconoscimento del Sahara Occidentale, si batte per il disarmo e denuncia le provocazioni armate di Putin contro il pacifico regno. Elegantissima in abito pantalone nero e camicetta caffelatte, parla nel suo studio stile Luigi XIV al ministero degli Esteri reale, leader segreta della potenza del nord, insieme a un team di donne che ha in pugno i dicasteri-chiave.
Nuova etica, femminismo in politica. Cosa significa?
«Insisto, prima di tutto pragmatismo: orientarsi a risultati efficaci. Ma senza mai tradire valori e principi: in questo senso sono bifronte. Difendo gli interessi svedesi pensando che sono anche quelli del mondo globale. Siamo qui al governo per cambiare la realtà, da superpotenza del cuore, non per far carriera. Me lo dissi subito: dove voglio arrivare? Così lavorai alla Commissione europea e all’Onu: dandomi valori-guida. E imparando ad ascoltare tutti prima di decidere: partiti, ong, sindacati, aziende, ogni voce dei paesi reali. Le priorità ascoltate dagli altri ti fanno governare meglio. È anche un credo femminista saper ascoltare».
Svolta rispetto al precedente governo conservatore?
«Qui vige consenso bipartisan su molto: aiuto ai paesi poveri, cultura politica solidale, pacifismo, europeismo convinto. Ma in 4 aree esistono differenze».
Quali?
«Primo, dobbiamo essere molto più attivi per la pace. La crisi russo-ucraina è top priority, ci occorre una prospettiva a lungo termine, europea: investire sulle forze democratiche russe, e ucraine, senza timore d’irritare nessuno. Poi la politica estera femminista».
Che significa?
«Quando cominciai a parlarne molti sogghignarono. Invece è analisi lucida della situazione mondiale. Come sono trattate le donne, qual è il loro ruolo nelle società, dove c’è o no un’agenda o road map per i loro diritti all’eguaglianza, a studiare e lavorare, a fare economia e politica estera, al futuro? Sono interrogativi-chiave per la sicurezza e la pace nel mondo. Uno smart power femminile – né hard né soft power, uno smart power – è decisivo per far andar avanti meglio il mondo. Nei diritti umani come nell’economia, dai paesi più ricchi ai più poveri. La politica estera femminista è un metodo: diritti, rappresentanza, ruolo sociale delle donne, sono chiavi per capire ogni situazione. Senza le donne, la Tunisia del Nobel non sarebbe una storia di successo. E in ogni guerra, la politica estera femminista è uno strumento per capire meglio, decidere, agire. Dove le donne sono maltrattate o discriminate – loro, metà della popolazione e spesso spina dorsale della stabilità sociale – di solito vengono calpestati i diritti umani e sprecate le qualità di metà del cielo, a danno di ogni individuo, dell’economia, della società. La politica estera femminista è più efficiente, nell’interesse di tutti. Per questo qui offriamo training per future donne-negoziatrici e leader di tutto il mondo».
Col suo no alle armi a Riad, a causa delle violazioni di diritti umani e discriminazione delle donne, ha sfidato anche l’industria militare svedese: duro?
«Sono una pacifista pragmatica. Noi democrazia neutrale abbiamo un’importante industria militare, io ho approvato un aumento in corsa delle spese per la Difesa pensando alle continue provocazioni russe, ai nostri piloti che quasi ogni giorno decollano su allarme con i loro piccoli caccia Gripen contro i bombardieri atomici. Ma ci guida un principio: esportiamo armi solo a paesi democratici e non aggressivi. Con i sauditi dopo certe parole contro di me che preferisco ignorare ci siamo parlati, abbiamo concordato di dissentire. Con una linea dura in nome di valori si può riuscire a continuare il dialogo».
Dialogare senza rinunciare a valori e principi?
«Mai dal 1945 abbiamo tanti conflitti come nel mondo multipolare di oggi: una quarantina, di cui almeno 11 guerre combattute. Sempre più scontri accesi da fattori religiosi, etnici o d’identità, e tentazioni di corsa all’arma atomica. In questo mondo complesso, l’apparente idealismo di una pragmatica politica estera femminista, quindi più pacifista e solidale, è strumento diplomatico più indispensabile che mai. Sapendo che devi avere il coraggio di incassare pugni o colpi bassi, e continuare a offrire con chiarezza estrema sui valori dialogo a governi, anche Iran o Turchia, a ong e società civili, ovunque. L’alternativa è soggiacere a interessi economici e militari o a superpotenze».