Corriere della Sera, 19 ottobre 2015
Cordelli lo stronca: È solo uno che vuole stupire
Mount Olympus di Jan Fabre con le sue 24 ore batte in quantità di tempo i Peter Stein e i Ronconi più estenuanti. Attribuisce a se stesso la qualità di evento che produce una delle espressioni più ghiotte dei nostri giorni: è tutto sold-out. Si vedono a Roma fenomeni di solito registrati a Londra. Fenomeni di bagarinaggio. Così l’Argentina, che ospita RomaEuropa, presenta una platea gremita, palchi tutti occupati. Ma, lo sappiamo, il belga Fabre non è Ronconi né Stein. Stando a quanto di suo ho visto, egli è della razza di Andreev, di chi vuole stupire, come osservò Tolstoj. Anzi, a dirla tutta, è un artista che fa l’artista, uno pseudo-artista. Mount Olympus lo conclama. Diviso in quattordici episodi, raduna un buon numero di dèi, eroi e personaggi della letteratura greca. Costoro appaiono in vesti plurime: in vesti di teatro, di performance, di opera lirica, di danza. Ho in mente alcune scene.
1) Due uomini offrono le natiche ad altri due che, inginocchiati, vi ficcano dentro la faccia; 2) Un gruppo di guerrieri si prepara alla pugna sillabando e ripetendo sciocchezze con la scansione ritmica dell’analoga scena di Full Metal Jacket; 3) Un uomo nudo al centro della scena si procura un’erezione, non si sa come né perché; 4) Per me la più convincente nello stabilire un nesso reale-metaforico tra ciò che vediamo e ciò che poi ascoltiamo: due donne, che scopriremo essere Clitennestra e Ifigenia, danzano fino allo sfinimento, letteralmente crollando a terra – sono infatti vittime di un sopruso (quello di Agamennone o quello del loro regista?); 5) Coperti da un lenzuolo, gli attori dormono. Anche qualche spettatore; 6) Il rassicurante finale: la donna abbatte l’uomo; coloratissimi, tutti danzano. Lo stile drammaturgico segue ovvie tracce prosastiche, fino al trash: State facendo un buon riposo? Eccovi un pollice da ciucciare a oltranza. Quella donna (Ecuba) è paranoica, o isterica, non ricordo. Prevale l’aspetto di performance: il pubblico applaude la bravura (atletica) degli interpreti scuotendosi dall’inerzia in cui è caduto. Alla struttura di successione d’un momento di sofferenza, cioè di fatica, e d’un momento di liberazione fa riscontro nello spettatore non già un accrescimento di vitalità o di senso, come accade per un testo poetico, ma una perdita d’energia. Tutto si vaporizza in una specie di cibernetica vacuità – come accade, nel nostro tempo, alle pretese di totalità.