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 2015  ottobre 19 Lunedì calendario

Cronaca di uno spettacolo durato 24 ore all’Argentina di Roma. Ideatore Jan Fabre, spettatori arrivati da tutto il mondo, più che uno show un rito «fra membri maschili danzanti, erezioni, baccanali, candide tuniche macchiate di sangue, vagine vaticinanti, prove fisiche al collasso, pezzi di vera carne bovina che dopo ore di utilizzo impregnano l’aria di un odore nauseabondo»

Anna Bandettini su Repubblica
ALLE QUATTRO del mattino di domenica, il Teatro Argentina di Roma pare un ostello o forse un ritrovo di una setta di matti. In scena, ipnotico, inesorabile, lo spettacolo va avanti da nove ore filate. I corridoi dei palchi paiono un accampamento: spettatori che ronfano su un centinaio di brandine; altri, rimasti in platea, li vedi accasciati tra sonno e veglia sulla poltrona, allungandosi su quella di fianco se è libera. I più fortunati nei palchi, tolte le scarpe, provano a dormire sul velluto rosso del pavimento. C’è chi si è portato da casa asciugamano, spazzolino da denti, il necessario d’emergenza.... Al bar gli irriducibili con facce stravolte, bevono ancora caffè. È l’ora più critica, perché già dalle sei il teatro si ripopola. Un paio d’ore di sonno, la gente guarda, applaude, twitta con l’hashtag #MO24 e quando alle 19.05 di ieri, dopo 24 ore filate di spettacolo, gli attori sono chiamati a una ennesima prova di resistenza fisica nell’ultimo sfrenato baccanale, l’Argentina è stracolmo, entusiasta, ubriaco di emozioni e decreta un autentico trionfo, con standing ovation e quindici minuti di applausi per Mount Olympus – To glorify the cult of tragedy (ripreso anche in streaming da Guru di Enrico Ghezzi).
Appuntamento clou del festival Romaeuropa , è l’ultimo immane lavoro di Jan Fabre, ieri acclamatissimo, performer e pittore belga di fama internazionale. 24 ore consecutive, lo spettacolo più grande mai prodotto con i sette giorni di Ka mountain di Bob Wilson in Iran nel 1972, è gigantesco e magmatico, apocalittico, violento, poetico e osceno pieno come è di nudi, membri sessuali all’aria, orge quasi realistiche, per raccontare le origini della tragedia attraverso i classici greci. È la grande macchina fantastica del teatro che irrompe nella vita, accomunando attori e spettatori, anch’essi chiamati a una prova di resistenza, a isolarsi un giorno intero dal mondo (certo liberi di entrare e di uscire: un braccialetto messo a ogni spettatore certificava l’ingresso), a seguire la propria linea di attenzione, la propria visione. Entusiasti i commenti. “Postwagneriano” decreta Bonito Oliva.
Jan Fabre pensava a questo lavoro da sei anni; ha riscritto i testi con Jeroen Olyslaegers e Miet Martens (le musiche sono di Dag Taeldeman), ha allenato quattro generazioni di performer, 28 tra attori e danzatori, eccellenti; previsto i livelli di stanchezza, calcolato gli effetti sul corpo di attori e pubblico. Il risultato è straordinario, per rigore, serietà e lavoro sulla tragedia greca. L’origine della nostra civiltà, dice Fabre con il suo consueto linguaggio artistico (nudi, eiaculazioni, pezzi di carne, sangue...) è violento, marziale, barbarico, una distesa di corpi sgozzati e infamie sanguinarie. Che fare? «Godetevi la vostra tragedia», ci ammonisce facendo parlare un dio, Dioniso, «immaginate qualcosa di nuovo». E così Fabre, dopo 24 ore di insonnia ci porta in un sogno.

Laura Martinelli sul Corriere della Sera

ROMA Una catarsi per mille: tanti al teatro Argentina, alternandosi in diverse fasce orarie (alcuni eroici per l’intera durata), hanno seguito la maratona teatrale Mount Olympus – To glorify the cult of tragedy, iniziata alle 19 di sabato e terminata ieri alla stessa ora con applausi interminabili.
Quaranta minuti di acclamazioni, urla, ovazioni (tutti in piedi) all’indirizzo dei bravissimi performer e del geniaccio Jan Fabre, ideatore della monumentale impresa portata in Italia dal Romaeuropa Festival. La tragedia greca con i suoi miti, gli incubi, i sogni, i sacrifici, umani ribelli e dèi indifferenti, fra membri maschili danzanti, erezioni, baccanali, candide tuniche macchiate di sangue, vagine vaticinanti, prove fisiche al collasso, pezzi di vera carne bovina che dopo ore di utilizzo impregnano l’aria di un odore nauseabondo.
Sono arrivati a Roma da tutt’Italia e dall’estero per partecipare al rituale. «Lui è un folle, ma un folle meraviglioso» scandisce alle tre del mattino durante la pausa-bar Julia Hanslmeiv, arrivata dalla Baviera. Due giorni appena: weekend Fabre, e si riparte. Viaggio lampo pure per Eleonora Cau, sarda, che si concede dieci minuti d’aria (sono le 4): «Ho una laurea in Lettere classiche e trovo che anche questa sia divulgazione». Non è uno spettacolo da scolaresche: «Partecipare a riti sacrificali era normale nell’antichità» replica l’amica Eleonora D’Alessandro. Giovani, e non solo: in quindici arrivano da Modena, Valentino Borgatti regista, e i suoi brizzolati amici. «Meno concettuale, di una semplicità adamantina» osserva quando le lancette indicano le 2.
La platea non si svuota mai, a parte l’andirivieni degli spettatori, distraente ma inevitabile. Alle 23, alle 2 e alle 5 i rimpiazzi: nuove entrate dalle liste d’attesa. Ma è una minoranza a mollare. La maggior parte si lascia contagiare da quella febbre d’insonnia auspicata da Fabre, che intorno alle 5.30 si trasforma per molti in sonno vero. Chi scivola sulla poltrona. Chi s’allunga sui verdi lettini da mare accatastati nella sala Squarzina. Qualche bivacco al chiuso dei palchi. Intanto il rituale avanza, sospeso solo per tre brevi riposi «a vista» dei performer in candidi sacchi a pelo, su un palcoscenico dove i materiali continuano a sedimentarsi (fiori, foglie, maschere scheggiate, liquami, l’olio della turbolenta lotta a coppie finale). L’hashtag #MO24 vola (il picco dalla Grecia), e la diretta su egh.guru è rilanciata da Morgan a Asia Argento.