Corriere della Sera - La Lettura, 18 ottobre 2015
Come fu essere modella di Balthus. Il racconto di Michelina Terreri
«Attraversavo il giardino, percorrevo il viale degli aranci, arrivavo alla sua porta, bussavo. Una bella porta rosa chiaro. Nello studio c’era una luce bellissima, un raggio di sole entrava dalla finestra e illuminava sola metà della stanza, l’altra metà era quasi al buio. C’erano un letto, dei divani verdi, delle poltrone rosa. C’era una sedia strana, di legno e velluto verde scuro, e un profumo di fiori di tiglio. Questo era l’atelier che Balthus usava per disegnare. L’altro, dove dipingeva, era invaso dall’odore pungente dei colori. Un posto strano, come di un alchimista, di qualcuno che prepara formule magiche, segrete». Così Michelina, la bambina adolescente di tanti disegni di Balthus, racconta di quando posava come modella per il pittore a Villa Medici, nei primi anni Sessanta. Lo fa in una intervista di quaranta minuti, realizzata nel 1999 dal fotografo Lewis Baltz con Slavica Perkovic, dove le immagini sono evocate soltanto dalla voce. Un frammento di questa intervista, selezionato da Luigi Ceccarelli, verrà presentato per la prima volta nella mostra che si inaugura il 24 ottobre a Villa Medici, in contemporanea con quella allestita alle Scuderie del Quirinale: in tutto centocinquanta opere, tra quadri, disegni, fotografie.
La voce di Michelina dà corpo all’immagine dell’artista che disegna passandosi le mani tra i lunghi capelli bianchi, la sigaretta sempre accesa tra le labbra. «Se il disegno veniva bene, si consumava fino in fondo, senza che lui se ne accorgesse. Se col mozzicone ne accendeva un’altra, voleva dire che qualcosa non andava. Indossava camicie a quadretti blu e verdi, foulard rossi e blu, pantaloni beige, zoccoli. Non l’ho visto quasi mai con le scarpe. Non parlava mai durante le sedute. Guardava intensamente, e capivo che non vedeva più in me una persona, ma solo un oggetto da disegnare. Aveva uno sguardo penetrante, mani molto belle, un modo particolare di tenere la matita». Questo modo l’ha descritto bene François Rouan, che fu assistente del pittore per molti anni: «La tecnica del disegno di Balthus si basa su un appoggio leggero di piatto della mina della matita, che accarezza la superficie della carta per dare vita alla composizione come in un alone luminoso. Le indicazioni più precise e marcate che vengono dalla punta dello strumento giungeranno, con parsimonia, solo alla fine».
Con Michelina, Balthus parlava durante le pause, quando la vedeva stanca. «Mi leggeva le storie che gli piacevano, mi raccontava le cose che aveva visto, mi faceva vedere i cataloghi delle mostre, mi cantava opere liriche. Mi piaceva moltissimo sentirlo cantare il Don Giovanni di Mozart e glielo facevo ripetere molte volte». Le pose si svolgevano dalle tre alle cinque, quando la luce era più morbida. Alle cinque cominciava la cerimonia del tè. Arrivava il cameriere ad annunciarla. «Salivamo al piano di sopra, dove c’era il resto della famiglia. Da un bar di piazza di Spagna mandavano dei biscotti che sapevano di limone ed erano buonissimi. Balthus si metteva il kimono, il rito durava più di un’ora, venivano amici, artisti, intellettuali».
Il pittore era arrivato a Roma nel 1961, nominato, quasi di forza, direttore dell’Accademia di Francia da André Malraux. «Mi doleva smettere, almeno temporaneamente, di dipingere», avrebbe raccontato in seguito. «Villa Medici era in condizioni disastrose e avrei dovuto restaurarla, sottraendo tempo alla pittura. I disegni però non mi richiedevano lo stesso tempo dei quadri. Una volta mi servivano, per lo più, come preparazione dei quadri, mentre ora nascevano autonomamente, completi in se stessi». Riuscì tuttavia a fare alcuni dipinti. Dal ’63 al ’66 lavorò a «La stanza turca», una tela a tempera con caseina e polvere di marmo di grandi dimensioni. La modella era Setsuko Ideta, che aveva conosciuto in Giappone nell’estate del ’62 e che poi sarebbe diventata la sua seconda moglie. La stanza turca è quella in cima a una delle torri del palazzo. L’aveva disegnata, secondo il gusto orientale dell’epoca, Horace Vernet, direttore dell’Accademia di Francia dal 1828 al 1835. Si raggiunge con una scala a chiocciola. È minuscola, con un caminetto, le pareti rivestite di piastrelle a motivi geometrici che arrivarono con una nave da Napoli, il soffitto a volta dipinto a tempera e due piccole finestre: una spalancata sui tetti di Roma, l’altra sui giardini della Villa. Verrà aperta al pubblico, per la prima volta, durante la mostra. Fu l’unica stanza che Balthus non toccò, nel corso dei restauri durati sedici anni. Incominciò dal piano nobile, adottando una tecnica nuova, preparando personalmente dei campioni: mise a nudo i muri, scoprì affreschi del Cinquecento che decoravano la parte alta delle pareti, conservò gli zoccoli dipinti a falso marmo e stese sul resto delle superfici sfumature colorate che poi alterava e invecchiava con una raschiatura irregolare per far riapparire gli strati sottostanti. Infine patinava gli strati con gesti circolari usando dei fondi di bottiglia. I colori glieli procurava Memmo Mancini, che lavorava alla Ditta Poggi, dietro il Pantheon: «Gli macinavo i pigmenti, gli preparavo le tele con la prima mano di fondo. Era altero e raffinato. Possedeva il segreto di legare le polveri agli smalti. Conosceva bene anche la pittura del Quattrocento e i materiali dell’epoca, che gli permettevano di lavorare con grande lentezza. Mi raccontò che li aveva scoperti girando per l’Italia in bicicletta, negli anni Venti. Una volta mi chiese il “bruno di mummia”, che veniva usato nell’antichità ed era estratto davvero dalle mummie egizie».
I colori e il modo di applicarli sulle pareti erano gli stessi che il pittore usava nelle tele. Così gli interni del palazzo finirono per produrre nei visitatori la stessa sospensione temporale e spaziale che l’osservatore prova davanti ai suoi dipinti. E Balthus, come sostiene Cécile Debray che cura la doppia mostra romana con la collaborazione di Matteo Lafranconi (catalogo Electa), realizzò la sua aspirazione più profonda: abitare le stanze che immaginava nei suoi quadri, creando una fluidità tra spazio fisico e pittorico. Come Alice che con un saltino entra nella casa dello Specchio.