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 2015  ottobre 18 Domenica calendario

Un aereo si schianta, nessuno sopravvive. Catalogo di 48 destini

Il suo nome è Bosc. Adrien Bosc.
Lontano discendente del pittore fiammingo, Hieronymus Bosch?
Ride il giovane scrittore che, con scarso sforzo di fantasia, potrebbe essere definito il nuovo enfant prodige della letteratura francese: «Non credo. Bosc è un cognome molto diffuso nell’Hérault, nel sud della Francia. Nella lingua locale significa piccola foresta. Mia madre, invece, è alsaziana, più vicina alle Fiandre».
Eppure nella tecnica narrativa di questo ventinovenne seduttore della critica d’Oltralpe c’è qualcosa che richiama l’arte del dettaglio, «a volte grottesco», aggiunge lui, che dà un senso all’insieme. Il suo primo e per ora unico romanzo, Prendere il volo, è una certosina ricostruzione dell’ultimo viaggio del Constellation, il Lockheed L-749A, modello di punta dell’Air France nel dopoguerra, dal decollo dall’aeroporto parigino di Orly, la sera del 27 ottobre 1949, allo schianto sul Monte Redondo, alle Azzorre, poche ore dopo, con il suo carico di 48 esseri umani, 11 membri dell’equipaggio, 35 passeggeri anonimi o quasi, e due star: il pugile Marcel Cerdan, grande amore della cantante Edith Piaf, e la virtuosa del violino Ginette Neveu. Tutti diretti, per ragioni diverse, a New York. Nessun superstite.
È il romanzo di 48 destini, una manciata dei quali diffusamente raccontati dalla stampa dell’epoca, mentre quasi tutti gli altri sono rimasti nell’ombra. Finora. Adrien Bosc, giovane editore prima che scrittore, ha capito quanto valessero la pena di essere indagati, perché – come dal nome dello sfortunato aereo – le loro traiettorie formano una costellazione di coincidenze, fatalità, segni, colpi di fortuna o sfortuna, tutt’altro che estranei anche alle ricerche dell’autore, 65 anni più tardi.
Perché proprio la tragedia del «Constellation», fra tanti disastri aerei?
«Un caso. Ma non è mai gratuito, il caso. Una sera stavo guardando su YouTube un concerto di musica classica. A fianco, sullo schermo, misteriosi algoritmi suggeriscono altri video: “Se vi è piaciuto questo, potrebbero interessarvi anche questi”. Uno rimandava a una trasmissione televisiva di Jacques Chancel sull’anima dei violini. Si parlava della scomparsa enigmatica dello Stradivari di Ginette, mai più ritrovato dopo lo schianto. Ero affascinato da quella storia, al punto da non riuscire a dormire la notte, non potevo più staccarmi dal computer. Conoscevo certo la vicenda di Marcel Cerdan, il Bombardiere marocchino, della sfida con Jack LaMotta che lo attendeva a New York. Ma volevo sapere di più, delle cause dell’incidente, delle persone riunite dal destino su quel volo».
Il primo passo?
«Mi sono procurato la lista dei passeggeri. Pensavo che avrei trovato soltanto milionari. All’epoca volare era un lusso. Invece a bordo c’erano anche cinque pastori baschi che emigravano negli Stati Uniti per andare a lavorare nei campi dell’Arizona o della California, un’operaia di Mulhouse...».
La bobinatrice Amélie Ringler, baciata da un’eredità inattesa della zia d’America.
«Perfetto esempio di destino contrario: quando la fortuna si trasforma in disgrazia. La modesta lavoratrice si scopre ricca all’improvviso ma perisce andando incontro alla sua fortuna. O, al contrario, quando un contrattempo si trasforma in benedizione. In ogni catastrofe aerea c’è chi si salva perché perde l’aereo».
Come la coppia di sposi del «Constellation»?
«Sì, i Newton. Edith Piaf si è sicuramente sentita colpevole per la morte del suo pugile, perché lo aveva convinto a prendere l’aereo, invece della nave, per raggiungerla prima possibile a New York. Ma così ha salvato le tre persone che hanno dovuto cedere i loro posti a Marcel e ai suoi accompagnatori. C’è un illuminante aforisma di Ambrose Bierce proprio sulle due facce della fortuna: affidati pure a una zampa di coniglio se vuoi, ma ricordati che non ha funzionato per il coniglio».
È un’indagine più sul fato che sui fatti?
«Nel libro parlo della concatenazione degli eventi che portano a quel fatto e cerco di dimostrare come ogni personaggio reale incarni un destino. Il suo accanimento su Françoise Brandière, per esempio: sopravvissuta tre mesi prima a un incidente d’auto, si era ripresa dal coma e imbarcata per tornare a Cuba con la madre».
Come recuperare il passato di quei viaggiatori anonimi?
«Con Ernst Lowenstein, l’uomo appena divorziato che tornava a New York per riconciliarsi con la moglie, ho avuto davvero molta fortuna. Una sera ho mandato un’email alla cieca all’indirizzo di un Robert Lowenstein che potesse essere il piccolo Bobby cui si accennava nelle cronache di allora. La mattina dopo ho trovato la risposta: era proprio lui. Ma per i cinque pastori baschi è stato più complicato: erano storie che uscivano dal nulla. Ho fatto un lungo lavoro d’inchiesta, quasi una ricerca genealogica. Entusiasmante».
Dove non è arrivata l’indagine ha sopperito la fantasia? O sapeva davvero che Amélie Ringler indossava calze di nylon Schiaparelli?
«No, naturalmente ho colmato le lacune con l’immaginazione. Ho trovato nelle riviste dell’epoca le marche più reclamizzate. Il mio è stato un lavoro di due anni, a tappe. Prima le ricerche, poi la costruzione della struttura narrativa, alternando cronaca e racconto. La verità dei fatti, per così dire, mi è servita come un tutore in botanica. La pianta cresce intorno, a volte attaccata al suo supporto, a volte andandosene per conto suo, lungo un muro. Ma sempre legata al suo tutore. Tutti i fatti erano lì, e costituiscono lo scheletro del libro. La polpa è data dalla fantasia».
Il Gran Premio dell’Accademia francese al suo libro è stato salutato come la scoperta di un nuovo genere e di una nuova generazione letteraria, è d’accordo?
«Sinceramente no. Nè credo che sia una questione generazionale. Ho iniziato come editore di riviste e di testi stranieri e mi sono trovato di fronte racconti americani, molto lavorati, molto costruiti. Mi sento più vicino a quegli autori che ai miei coetanei e connazionali. In Francia mi sento più ispirato da autori più maturi come Patrick Deville, Olivier Rolin o Pierre Michon, con la sua trilogia di biografie romanzate».
Si può risalire allora fino alle «Vite parallele» di Plutarco.
«Esattamente. Mi hanno colpito libri come Donne ad Auschwitz di Charlotte Delbot, che narra l’incrocio delle esistenze di 49 donne sopravvissute, su 230 deportate con il convoglio partito per il campo di concentramento il 24 gennaio del 1943. Donne di tutte le età, le idee politiche, le professioni, riunite dal destino su quel treno».
Però inizia il suo libro con una frase di Antonio Tabucchi, tratta da «Donna di Porto Pim»...
«Questa: a volte i passi della nostra vita possono essere guidati anche dalla combinazione di poche parole. Riassume come una combinazione di qualche parola abbia potuto orientare la mia vita».