Corriere della Sera - La Lettura, 18 ottobre 2015
Vita nomade di Gillo Dorfles
In un illuminante saggio del 1978, Isaiah Berlin ha suggerito una sorta di fisiognomica delle idee, individuando due grandi famiglie di spiriti. Da una parte, le volpi: coloro che «perseguono molti fini, spesso disgiunti e contraddittori (…), non unificati da un principio morale o estetico». Dall’altra parte, i ricci: coloro che «riferiscono tutto a una visione generale, a (…) un principio ispiratore, unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono».
Servendoci di questa distinzione, potremmo iscrivere Gillo Dorfles nel gruppo delle volpi. Difficile, infatti, cogliere la sua ossessione, il suo pensiero dominante. Ciò che ha sempre caratterizzato la sua lunga e sfaccettata avventura intellettuale è una sincera irrequietezza. Una volta ha detto: «La noia per me è un incubo, l’unica cosa che mi fa veramente paura. Penso che (…) sia una non-vita, perché annoiarsi significa anche non essere abbastanza autonomi per bastare a se stessi».
Pur cresciuto in un ambiente borghese, snob nei comportamenti e démodé nell’abbigliamento, Dorfles è rimasto intimamente radicato nello sperimentalismo novecentesco. Insofferente nei confronti di quel che è già consolidato, si lascia sedurre da ipotesi non ancora formate. Impegnato a sottrarsi alle tutele dello storicismo e della filologia, ama misurarsi con pratiche e con poetiche non sempre contigue. Ciò che lo affascina – come ci indicano anche i suoi quadri di matrice surrealista (dal 27 novembre al Macro di Roma) – è il muoversi continuamente da un territorio a un altro. Sapiente nel portarsi al di là della mitologia dei «grandi racconti», sin dagli anni giovanili, si è dedicato a delineare il profilo di un anti-canone, nel quale si sancisce il trionfo della disarmonia e dell’asimmetria. Le parole-chiave del suo lessico sono: intervallo, scarto, pausa, interruzione, discontinuità, disordine, perdita del centro.
Qualche indizio di tale attitudine. I titoli di alcuni libri di questo giovane critico di 105 anni: Il divenire delle arti, Le oscillazioni del gusto, Il divenire della critica, L’intervallo perduto. E, inoltre, la strategia adottata in alcuni suoi volumi, oramai autentici classici ( Dal significato alle scelte, Simbolo comunicazione consumo, Artificio e natura, Elogio della disarmonia, Il feticcio quotidiano ): per analizzare alcune fondamentali categorie estetiche, in anticipo sulle ricerche dei visual studies, Dorfles spesso convoca linguaggi visivi differenti (arte, architettura, design, cinema, moda, grafica, pubblicità), rivelandone connessioni e relazioni. Questo temperamento incline agli sconfinamenti si manifesta anche nella necessità di transitare ininterrottamente dall’elaborazione teorica al confronto con il corpo delle opere, senza mai abbandonare l’esperienza del dipingere, da «pittore clandestino».
Tale passione per il «divenire» si può riscontrare anche negli scritti sull’arte contemporanea pubblicati da Dorfles sin dall’inizio degli anni Trenta, che adesso vengono meritoriamente radunati in un ampio libro edito da Skira, Gli artisti che ho incontrato. Quasi un Meridiano che, nel collegarsi idealmente a una raccolta uscita nel 2010 ( Inviato alla Biennale ), integra e amplia precedenti antologie dello studioso triestino ( Il divenire della critica, Preferenze critiche ): vi sono selezionati contributi di difficile reperibilità (apparsi su cataloghi e su riviste dal 1931 a oggi). Un volume ricco, plurale, eppure curato con qualche approssimazione e frettolosità: alcuni saggi usciti nella versione iniziale in altre lingue non sono stati tradotti; in molti casi i riferimenti bibliografici che accompagnano i testi sono incompleti; l’introduzione è troppo generica; nel sommario non si segnalano i nomi degli artisti esaminati; inoltre, si sono colpevolmente esclusi i reportage sulla Biennale di Venezia e gli articoli pubblicati sul «Corriere della Sera».
Nonostante questi limiti, Gli artisti che ho incontrato ci consente di accostarci alle ragioni sottese a una metodologia flessibile e aperta. Distante da certe rigidità accademiche, libero da compromessi e da calcoli, Dorfles si misura con l’arte in maniera laica. Si affida a un approccio descrittivo-fenomenologico per intercettare i luoghi – anche marginali – dove affiorano barlumi di novità. Quel che conta, per lui, non è ripiegarsi in fragili nostalgie né abbandonarsi a effimere profezie. La sua azione critica potrebbe essere racchiusa in queste parole di Charles Péguy: «Essere in anticipo, essere in ritardo, che inesattezza. Essere puntuali è la sola esattezza possibile».
Per afferrare la seule exactitude, con una spiccata sensibilità militante, questo maestro senza eredi si curva sul presente, che racchiude memorie e attese: è radura inesplorata in cui la storia sembra interrompersi per un attimo, offrendoci immagini destinate a essere subito sostituite.
Per decifrare il farsi e il disfarsi di questa temporalità liquida – simile a una biglia che rotola su un piano inclinato acquistando velocità – Dorfles si porta oltre ogni gerarchia. Nella sua involontaria e frammentaria topologia del XX secolo, pone sul medesimo piano personalità storiche (Boccioni, Duchamp, Kandinskij, Klee, Mondrian, Picasso, Schwitters), giovani maestri (Rauschenberg, Twombly, Johns, Manzoni, Abramovic) e compagni di strada (Fontana, Capogrossi, Baj, Castellani, Pomodoro, Vedova, Del Pezzo, Bonalumi). Abile nel saldare lo sguardo del critico del gusto e quello del testimone, propone resoconti di mostre e di eventi ma racconta anche visite ad atelier. Fare critica: per lui significa innanzitutto documentare un «incontro» con un’opera e con chi ha creato quell’opera.
Fedele al suo istinto intermediale, Dorfles compie frequenti incursioni anche in regioni per lui poco consuete: fumetto, grafica, musica, performance, Body Art. Ma – come attestano le sue «preferenze» – resta profondamente legato alla pittura. Che, lungi dal configurarsi come un genere di retroguardia, pur se oramai priva della sua aura, continua a conservare una potenza originaria, per donarsi come «sintesi di un sentimento che crea un simbolo» (Hughes).
E, tuttavia, in filigrana, nella loro straripante varietà, queste cronache riescono a svelarci la coerenza segreta del pensiero di questo critico irregolare e inquieto, innamorato dell’asimmetrico. Che, sulle orme dell’estetica della percezione di Arnheim, tende a concepire i suoi esercizi ermeneutici come perlustrazioni antropologiche non come meditazioni astratte: l’estetica, per lui, non è solo filosofia dell’arte, ma soprattutto «studio psicologico e sociologico dell’arte legato alla personalità umana».
Si tratta di un’antropologia visuale tesa a dar voce in particolare a quegli artisti che sentono il loro mestiere non come mimesi, né come sprofondamento nel concettuale, ma come incessante sperimentazione linguistica. E come artificio per sfidare il potere totalizzante della ragione. E far affiorare dai sotterranei della coscienza energie inespresse, silenziose, indicibili, in un viaggio che conduca dal logico al mitico. «È necessario – ha scritto Dorfles – (…) ristabilire, accanto a una ritrovata e rinnovata “coscienza intervallare”, anche una nuova presa di coscienza dei dati della fantasia, di quello che possiamo (…) definire l’Immaginario».