la Repubblica, 18 ottobre 2015
Guillermo Del Toro parla di Crimson Peak e un po’ anche di se stesso
Il faccione è bonario, ma lo scintillìo degli occhi dietro la montatura tonda rivela un tumultuoso mondo interiore. Guillermo Del Toro, ultimo alfiere dell’horror romantico, malgrado la mole balza agile nel minuscolo camper metallico parcheggiato in un angolo degli Universal Studios, Los Angeles. Apre il frigo colmo di bottiglie d’acqua – naturale – ne apre una e mentre s’accomoda sul divano ci torna in mente una sua frase detta quando ancora era agli esordi: «So di avere un’aria da freak: appena entro in un negozio c’è sempre un vigilante che mi segue per vedere se rubo qualcosa». Non è cambiato molto da allora, solo che oggi all’autoironia ha aggiunto la consapevolezza del proprio talento. Stephen King ha appena benedetto su Twitter il suo nuovo film, Crimson Peak: «Meraviglioso e dannatamente terrificante». «È una delle mie creature preferite», gongola il regista messicano. Un fantasy gotico, ora in arrivo anche nelle sale italiane, che è un po’ il manifesto della sua summa poetica, catalogo degli elementi ricorrenti nel cinema di Del Toro – luoghi oscuri, insetti, mostri, meccanismi a orologeria – e suggello di un matrimonio con la paura iniziato, come ci racconta, esattamente quarantanove anni fa.
«Il mio primo spavento me lo provocò mio fratello maggiore che avevo due anni. Ero nel lettino e lui si affacciò d’improvviso, indossando gli occhi giganteschi del Mutante del telefilm Oltre i limiti. Per poco non sono morto. Gli psicologi parlano di un meccanismo che scatta nell’infanzia quando, per poterlo sopportare, ti identifichi con ciò che ti spaventa. E infatti io sono sempre stato attratto dai mostri, cominciando a collezionarne fin da quando ero piccolissimo».
Così, a otto anni, il piccolo Guillermo girava i suoi primi filmini horror e a ventuno anni produceva il suo primo lungometraggio, diventando un maestro di trucco e effetti speciali con la sua società: Necropia. «Se oggi posso dire di non provare paura, almeno non nel senso normale del termine, è forse proprio grazie alla grande quantità di paura sperimentata da bambino e da ragazzino». A spaventarlo non era solo il fratello, ma anche la nonna: «In Crimson Peak la sorella del protagonista indossa il cameo di mia nonna, lo stesso che ho usato in La spina del diavolo e in altri miei film. Mia nonna compare sempre in qualche personaggio, stavolta è la terribile madre dei due fratelli che vediamo immortalata nel ritratto. Era una donna ultracattolica e grazie a lei io vivevo costantemente nel terrore di peccare, morire e finire quindi all’inferno». Insieme andavano per cimiteri: «Visitavamo spesso la tomba del nonno, è una cosa normale in Messico. Meno normale è che più volte la nonna abbia tentato di esorcizzarmi per liberarmi dalla mania dei mostri. Durante una discussione iniziò a tirarmi addosso l’acqua santa, pensava fossi posseduto. Io iniziai a ridere e lei a urlare: “È la risata del demonio!” gridava. L’ultima volta che la vidi fu qualche mese prima che morisse. Le mostrai i bozzetti dei miei mostri, si mise a piangere: “Perché non puoi creare qualcosa di bello?”. Non capiva che la mia ossessione era trovare la bellezza all’interno di quei mostri».
Tra le fonti d’ispirazione di Del Toro non c’è però solo la famiglia. Anche il cinema italiano, da Mario Bava a Dario Argento a Matteo Garrone, ha contribuito non poco. «Il racconto dei racconti è un film bellissimo. Matteo ha colto l’incanto primordiale del racconto fiabesco come solo pochi autori si sono rivelati in grado di fare. In ogni film riesce a creare una realtà del tutto diversa dalla volta precedente e sempre credibile rispetto alla storia che racconta».
Il suo primo amore fu Frankenstein di Boris Karloff: «Era pieno di fragilità, aveva un’aura da santo. La sua vulnerabilità gli valse subito la mia simpatia di bambino». A ogni personaggio, buono o cattivo, Del Toro regala qualcosa: «Un passato, un segno zodiacale cinese, una lista di cibi e canzoni, segreti». E se sono tante le creature oscure in cui ha trovato se stesso, una sola gli corrisponde perfettamente: «Hellboy. Sono io. Ho adattato il fumetto di Mike Mignola alla mia personalità, anche la sua relazione con Liz Sherman somiglia a quella con mia moglie». Un grande romantico, e Crimson Peak ne è la gotica manifestazione tra paesaggi notturni che sembrano usciti dalle tele di John Atkinson Grimshaw e Caspar David Friedrich, o dalle pagine de Lo zio Silas di Joseph Sheridan Le Fanu: «Il romanzo gotico è legato alle favole e alla passione. Un film come Ho camminato con uno zombi di Jacques Tourneur ha la stessa struttura di Jane Eyre : una ragazza pura guidata in un viaggio oscuro da un gentiluomo scuro, entrambi viaggi d’iniziazione all’età adulta».
In Crimson Peak tocca a Mia Wasikowska essere trascinata da Tom Hiddleston nella magione del Picco Cremisi costruita su una montagna d’argilla, la casa dei fantasmi. «Io credo ai fantasmi, entità svincolate da moralità e religione. Li ho anche incontrati quando sono andato a cercarli in un albergo del Galles. In quella camera maledetta, mentre guardavo i dvd di The Wire, ho rivissuto un omicidio: le urla terribili di una donna e i sospiri di un uomo in preda al rimorso. Per il terrore sono rimasto sveglio tutta la notte. Ma almeno così ho potuto finire di vedere tutta la serie».
Oltre che visionario, Del Toro è anche cineasta di maniacale precisione. Molti i progetti arenati – «è una sofferenza, per questo lavoro sempre a più film sperando di girarne uno ogni due anni: ho scritto ventitré sceneggiature, meno della metà sono arrivate al cinema» – altrettante le occasioni di frizione con le majors: come quando ad esempio negò il suo The Strain all’emittente che voleva trasformarlo in commedia: «Nonostante il mio carattere non ho ancora capito come sono riuscito a fare tutti i film che alla fine ho fatto». Questa volta, a sbloccare l’eterno montaggio della sua ultima fatica, sono dovuti intervenire i suoi due sodali di sempre, Alejandro Amenábar e Alfonso Cuarón: «Tra noi c’è fiducia totale, onestà al limite della crudeltà. Alejandro è stato chirurgico: cambia questo, sposta quello. Alfonso in un giorno ha tagliato dieci minuti». Il trio è un po’ il simbolo dell’onda messicana che ha conquistato Hollywood. Proprio a partire dall’Oscar vinto da Del Toro nel 2007 per Il labirinto del fauno. A quell’epoca il regista viveva in California già da una decina d’anni. Era andato via dal Messico dopo il sequestro del padre, poi liberato previo pagamento di un riscatto. È ancora molto legato al suo paese e sta producendo un documentario che ne racconta la difficilissima fase attuale: «È un grande paese che ha la sfortuna di avere pessimi governanti. Difficile trovare una soluzione, perché chi governa è il business della droga inestricabilmente intrecciato alle istituzioni». Del Toro ha già saputo fondere, e splendidamente, horror e politica, sia con La spina del diavolo che con Il labirinto del fauno, entrambi legati alla Guerra civile spagnola. Ma con il Messico... «No, non potrei, è un orrore troppo grande anche per me. Non credo sarei in grado di farci un film».