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 2015  ottobre 18 Domenica calendario

Il controllo del mondo attraverso il dollaro, ma sta arrivando la moneta cinese

economico americano e l’ascesa cinese, sono trend chiari e irreversibili: l’indice della quota media Usa di Pil, commercio e investimenti esteri mondiali è sceso dal 18% del 1973 al 14% del 2010; quello della Cina è salito da zero al 12%. Entro il 2020 le percentuali si saranno invertite. Gli Usa mantengono la leadership in ricerca e tecnologia: ciononostante la quota degli investimenti mondiali delle sue imprese è scesa in 15 anni dal 39% al 24%. L’aspetto sorprendente, sottolinea l’Economist, è che il dominio finanziario degli Usa continua incontrastato a dispetto del declino economico. Il dollaro rappresenta il 60% delle riserve valutarie nel mondo; l’86% delle transazioni in cambi; oltre la metà delle passività estere delle banche. Il mercato offshore del dollaro è oggi la metà di quello domestico; e le obbligazioni in dollari emesse da emittenti esteri equivalgono al 54% del Pil americano. Dati impressionanti. La Cina ha capito che per sostenere il trend di crescita deve sviluppare un mercato dei capitali in renminbi capace di finanziare l’espansione delle sue imprese e del commercio internazionale, intermediare il risparmio cinese e attirare quello estero, isolando così il paese dalle crisi finanziarie internazionali. Per la Cina il progetto è prioritario: ha creato una banca di sviluppo regionale che copre 30% del Pil mondiale; esteso linee di credito in renminbi alle banche centrali dei paesi dove i cinesi investono e dei fornitori di materie prime; promuove il mercato a Hong Kong grazie alla miglior tutela del suo sistema giuridico; garantisce la stabilità del renminbi con 3.500 miliardi di dollari di riserve, e chiede che il Fondo Monetario lo inserisca nel paniere degli SDR. Su questo tema la cecità europea è sorprendente: mai come oggi dovrebbe essere prioritario in Europa facilitare l’afflusso di capitali alle imprese, sostenere la loro crescita tramite aggregazioni, attirare i capitali esteri per finanziare le infrastrutture, intermediare e gestire meglio il risparmio, promuovere l’euro come valuta internazionale per poter pagare energia e materie prime con la moneta unica. Un grande mercato unico dei capitali in euro sarebbe per l’Eurozona anche la migliore protezione dalle crisi nel mondo. Nonostante Pil e reddito pro capite dell’Eurozona non siano di molto inferiori agli Usa, l’euro rimane una valuta “locale” e il suo mercato dei capitali, invece di svilupparsi, perde terreno. Il risparmio mondiale gestito da società americane è aumentato dal 45% al 50% in 10 anni, e per il 65% viene custodito da 4 banche Usa. Le prime 5 banche di investimento americane, uscite rafforzate dalla crisi, hanno aumentato la quota delle transazioni finanziarie all’ingrosso in Europa dal 48% al 59%, arrivando a collocare oltre un quinto delle obbligazioni in euro! Si stima che 15 delle maggiori controparti della Bce siano Primary Dealer americani. La quota dei ricavi nel mondo delle banche di investimento Usa è salito dal 45% al 50%; quella delle obbligazioni in dollari dal 36% al 42%. L’Europa non sviluppa adeguatamente il proprio mercato dei capitali, non riesce a promuove l’uso dell’euro nel mondo, e perde quote nella gestione, intermediazione, e investimento del proprio risparmio. Il settore finanziario ha bisogno di economie di scala per competere: grandi rischi richiedono grandi patrimoni; e risorse per gli enormi investimenti in informatica e professionalità oggi necessari. Ma il sistema bancario europeo è ancora molto frammentato secondo i confini nazionali e la nuova disciplina delle risoluzioni bancarie non aiuta: lasciando la gestione delle risoluzioni alle autorità nazionali e facendo gravare il rischio di dissesto su depositanti e obbligazionisti, prevalentemente domestici, disincentiva le fusioni transnazionali perché aumentano il rischio che i cittadini di un paese debbano pagare per il dissesto di una banca estera. Fusioni che però sarebbero indispensabili per creare gruppi in grado di competere con gli americani. Oltre agli intermediari, frammentati sono anche i sistemi giuridici, le leggi fallimentari e le autorità di regolamentazione dei mercati e degli intermediari nell’Eurozona. Così il mercato dei capitali in euro si sposta a Londra; che, nell’eventualità che la Gran Bretagna esca dall’UE, diventerebbe prevalentemente offshore. Ma per Bruxelles, è meglio preoccuparsi di qualche decimo di punto dei deficit pubblici.